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interviste MARCELLO CAPOZZI

 

Da un titolo simile potremmo attenderci un appuntamento televisivo o simili. E invece parliamo di musica, un nuovo progetto firmato dal cantautore napoletano, autore e produttore che vede nella deriva della vita il vero significato e il vero senso del tutto. O almeno questa è la chiave di lettura che tanto ci piace ascoltando questi suoni che cercano anch’essi la deriva dentro uno stilema indie-pop industriale. I primi 3 brani, la prima stagione, i primi video in rete che ovviamente restituiamo di seguito. Ennesima testimonianza di quanto la musica torna a far riflettere, stuzzica l’immaginario con un forte peso visionario, poetico e quotidiano.
 
I primi 3 singoli della prima stagione. Tutto questo perché oggi va di moda anche la forma “serie tv”?
Credo che “Offshore” rappresenti una proposta discografica ancor più enfatica di un "concept album" usuale,perciò mi interessava ispirarmi a modalità di racconto esterne all'ambito musicale. Avevo una storia che volevo sviluppare sulla lunga distanza, giocare sulle modalità comunicative della "serie tv" mi è parso intrigante. Nelle fasi di transizione culturale (in questo caso, la rivoluzione digitale) si ripropone la consueta querelle tra apocalittici e integrati, tra coloro che rifiutano una nuova tecnologia e quelli che accettano di buon grado il nuovo strumento espressivo. Offshore è una sorta di apocalittico integrato, un punto di raccordo tra vecchio e nuovo. Con il percorso di uscite progressive, enfatizza il frammento episodico (tipico del contemporaneo); ma, elaborando una narrazione unitaria in modalità seriale, difende a spada tratta l'idea tradizionale di album discografico (inteso come unità organica di brani).
 
Per parafrasare la traduzione di questo titolo: al largo di cosa? Da cosa ti stai o ci stiamo allontanando?
Certamente ci si allontana dal contesto ambientale natìo. Ma Offshore è soprattutto un movimento-verso l'ampiezza, giocato a un livello sempre più alto. Si inizia dall'abbandono della provincia di un paese marginale, come l'Italia, per approdare e giocarsi la faccia in una capitale mondiale come Londra. Nel Regno Unito accadranno poi delle cose (seconda stagione) che ci spingeranno a mutare direzione e a proseguire in un cammino di connessione verso la vastità. Il progetto del disco nasce dal desiderio di attraversare le potenzialità drammatiche della vita contemporanea in società, ma senza restarne avvinghiati o vinti. L'intenzione era andare oltre, nella consapevolezza che la vita in società non è l'unica dimensione attraverso la quale esperiamo il nostro stare al mondo.
 
Ed è un moto di deriva? Almeno questo mi arriva dal suono di questi primi “episodi”…
È un moto che fortifica (la prima stagione è un vigoroso approdo). I suoni nel disco muteranno tanto: deriva e approdo a un certo punto diventano indistinguibili. Alla fine della storia potremo forse dire che si tratta di una deriva che il personaggio protagonista ha l'abilità di farci apparire come un meraviglioso approdo. Ma dovrete seguirci nelle prossime stagioni per verificare.
 
Quanto c’è di biografico dentro “Offshore”?
Tutto, nella prima stagione. Poco (spero), in quelle successive, visto che ci si troverà di fronte a fenomeni legati al terrorismo internazionale. Al personaggio protagonista ho però affidato il mio sguardo sulle cose, la mia visione del mondo.
 
Ed è bellissima questa copertina… ce la racconti?
Durante mesi di costanti telefonate e scambi di email sul progetto, a un certo punto Jessica Lagatta mi ha detto di trovarsi in un periodo in cui stava studiando il cosiddetto "murmuration", e che tale associazione poteva funzionare per la copertina (e l'intero progetto grafico). Jessica suggeriva: lo stormo di uccelli si muove, muta, cambia forma; si sposta in diversi territori, comunica a se stesso; canta; si trova in una dimensione non terrena; può arrivare offshore. Tale suggerimento ci ha fatto svoltare definitivamente, permettendo di lavorare su un piano concreto e astratto al tempo stesso, districandoci bene tra le stratificazioni di significato disseminate nel disco. Mettendo insieme le varie facciate del progetto grafico, si evince che lo stormo appare da una nuvola nera e sparisce in un'altra nuvola nera. Quelle nuvole sono come buchi neri interni al nostro pianeta. L'immagine è di grandissima suggestione ed è perfettamente calzante alla narrazione del disco nel suo insieme. Splendidamente illustrata a mano.

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Raccogliamo sempre risposte romantiche quando chiediamo a certi artisti di parlarci di bellezza. E questo accade quando lo sguardo naviga alla ricerca di quel certo modo di pensare alle cose, non più fatto di superficie ed estetica quanto invece di dettaglio, di rifiniture, di piccoli accorgimenti. E questo ci arriva fortissimo ammirando quale dialogo si realizza nel tessuto tra immagine e melodia e suono dentro il nuovo video “Six Years Later”, dentro questa città deserta, dentro una pandemia rivoluzionaria. Marcello Capozzi pubblica per la label abruzzese I Dischi del Minollo questo lavoro dal titolo “Offshore”. Un viaggio, personale quanto allegorico, un suono in bilico tra indie-pop e distopie troppo inglesi per non rilevarne i dettagli. Parliamo con lui di bellezza e non solo…

Noi iniziamo sempre parlando di bellezza. Per Marcello Capozzi cos’è e cosa significa ricercare la bellezza?
Significa cercare connessioni ampie e coltivare l’intensità di uno sguardo capace di attraversare e poi oltrepassare l’angustia del vivere quotidiano. Contro il nostro volere, la memoria con gli anni si affievolisce e tendiamo a dimenticare gran parte delle nostre esperienze di vita. Nella lotta contro l’oblio personale, che inevitabilmente sopraggiunge, ricercare questo tipo di bellezza significa impegnarsi a lavorare in favore della parte memorabile della nostra biografia.

Dentro questo lavoro secondo te la bellezza che ruolo ha avuto? Lo trovo un disco molto visionario, estetico per molti aspetti…
Ti ringrazio. Il ruolo della bellezza in Offshore risiede proprio in questo elemento visionario, in questo sguardo che buca l’ordinario, che attraversa e poi oltrepassa l’esistente quotidiano per aprire a dimensioni ulteriori dell’esperienza umana del mondo.

In genere si dice sempre che ogni cosa è come fosse la prima. E in fondo questo disco sembra esserlo su molti fronti, non trovi?
Londra mi ha rimesso al mondo, quindi sicuramente proporre questo progetto, dopo tanti anni di silenzio, equivale a esordire di nuovo. Ed è paradossalmente così nonostante, in realtà, l’obiettivo originario di Offshore fosse quello di costruire un’opera conclusiva, un gesto definitivo a chiusura del mio rapporto con la musica. Inoltre, tutte le collaborazioni per la realizzazione del disco sono frutto di nuovi rapporti.

La pandemia, una Londra deserta, un inglese che incontra l’italiano… che viaggio è stato?
Un viaggio umanissimo che ha qualche forma di relazione con l’Infinito, nonché con la ricerca della bellezza, nel senso a cui ci riferivamo sopra. Di conseguenza, un’esperienza di vita con ottime chance di rientrare nella parte per me memorabile della mia biografia.

Distopia ma anche pop convenzionale. Quanto spazio hai dato alla ricerca e quanto invece alla scuola classica della canzone?
La ricerca dovrebbe essere un percorso volto all’individuazione di soluzioni adeguate alle caratteristiche dell’opera da realizzare: in Offshore ho cercato semplicemente di operare in maniera aderente al senso espressivo dei brani. A volte l’idea giusta può richiedere un elemento armonico, un determinato incrocio di frequenze, una dissonanza o finanche una forzatura timbrica che rasenta la stonatura. Dipende dai casi. Si ha maggiori probabilità di prendere decisioni sagge quando si evitano i condizionamenti derivanti dall’abbracciare rigidi a priori concettuali. Del tipo: voglio essere visto come un “cantautore tradizionale” o come uno “sperimentatore”? Mi sembra comunque di poter osservare che tra dimensione strumentale e narrazione testuale vi sia un equilibrio indovinato. Così come mi ritrovo sorpreso nel contare tre-quattro ritornelli in scaletta, mentre in genere i refrain non sono esattamente nelle mie corde.

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Ciao Marcello, benvenuto su Tuttorock, iniziamo parlando del tuo nuovo album, “Offshore”, un’idea molto particolare, che io ho apprezzato molto, e che presenta una struttura seriale suddivisa in 3 stagioni: 3 cicli di 3 episodi, che riscontri stai avendo?

Grazie per il benvenuto e l’apprezzamento! Difficile dirlo subito perché l’album (nella sua versione integrale e supporto fisico) è uscito da pochi giorni. Se prendiamo in esame il percorso fatto da settembre, con le anticipazioni delle prime due stagioni in digitale, sembra che la copertura mediatica stia gradualmente crescendo. In questi giorni sto facendo molte interviste e dovrebbero iniziare ad esserci un po’ di approfondimenti a breve. Mi permetto di concordare con te sul fatto che la struttura del disco sia molto particolare (e meditata). Nel prossimo futuro scopriremo quanta voglia ci sarà in giro di dare attenzione a una proposta peculiare, nonostante venga fuori da un autore marginale.

Brani che suppongo siano autobiografici, in quale lasso di tempo li hai scritti?

Soltanto i brani della prima stagione contengono degli autobiografismi. Per il resto, ho inseguito il percorso verosimile di un personaggio immaginario. L’album narra una storia unitaria che culmina con quella che nel comunicato stampa definisco “svolta ontologica”: successivamente al coinvolgimento in un agguato terroristico, il protagonista affronta la sua fase terminale e la narrazione si proietta, a quel punto, su altri orizzonti. Il protagonista non sopravvive. Venendo alla tua osservazione: se intendiamo sostenere che i brani siano tutti autobiografici, dobbiamo anche convenire sull’idea che io sia deceduto a seguito di un attentato terroristico, e che quella che stiamo facendo non sia un’intervista ma una sorta di seduta spiritica. Non sono totalmente contrario all’idea (ride -ndr). La scrittura dei brani risale perlopiù al periodo tra il 2013 e il 2016, con un due eccezioni: Anelli Siderali (risalente al 2010) e Six Years Later (composto nel 2020).

Hai mai pensato: “Chi me l’ha fatto fare, lascio perdere questo progetto”?

Molte volte: Offshore è stato un atto di amore e pazienza irripetibile. Fortunatamente, alle tentazioni negative ha sempre prevalso l’idea che un progetto così particolare fosse per me irrinunciabile.

I 3 video usciti finora di chi sono opera?

Modello 730 nasce dalla commistione di materiale girato separatamente da me e Andrew Johnson. Dei Miei Stivali l’ho girato insieme a Barbara Arnoldo ed è il frutto di ragionamenti sul materiale fatti insieme ad Alessandro Inglima (che poi ha realizzato l’editing). Six Years Later è invece un video integralmente prodotto da Andrew Johnson con la sua Vérité Films. In questa fase stiamo ultimando l’editing del video del brano Offshore, nato da una proficua triangolazione tra Italia, Inghilterra e Argentina con mio fratello Spartaco e Alessandro Focareta.

Hanno collaborato con te vari musicisti e al progetto grafico Jessica Lagatta, in base a cosa li hai scelti?

Jessica è una bravissima illustratrice che lavora in ambito editoriale. Oltre alla stima in generale nei suoi confronti, il fatto che lei abbia realizzato le illustrazioni del libro “Diario di un’apprendista astronauta” di Samantha Cristoforetti ha influenzato la scelta. Anche Offshore è un viaggio (di ritorno) verso l’universo ed ero certo che Jessica avrebbe offerto le intuizioni giuste. Carlo Natoli (musicista e ingegnere del suono) perché mi piacciono i suoi lavori e abbiamo un gusto sonoro molto compatibile. Sergio Battaglia (sassofonista), Vincenzo Di Silvestro (violinista) e Salvo Scucces (clarinetti + altro) sulla base del fatto che i singoli brani, sui quali sono stati coinvolti, necessitavano di essere completati in modo efficace con interventi puntuali di sassofoni, violini e clarinetti. Andrea Sciacca è un battista suggerito da Carlo (a ragione) come scelta ottimale per il sound del disco. Steve Head l’ho invitato per omaggiare una collaborazione che avevamo consolidato proprio mentre iniziavo a produrre l’album.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento sia del passato che di oggi?

Ogni tanto mi torna la nostalgia di Giorgio Gaber. Non credo c’entri con la mia musica, ma riascoltandolo ultimamente mi sto chiedendo se il mio desiderio di costruire delle scalette con progressione narrativa non derivi anche dall’aver ascoltato molto le registrazioni dei suoi spettacoli teatrali quand’ero ragazzo. Alcuni ascolti disordinati e ricorrenti del momento sono: Anna Von Hausswollf, Dead Combo, João Cabrita, Black Country, New Road, Space Afrika, Paul McCartney.

Cosa ama fare Marcello Capozzi quando non pensa alla musica?

Camminare sovrappensiero.

Non ti chiedo quando, perché purtroppo il Covid e le restrizioni sono ancora presenti nelle nostre vite, ma hai già pensato a come presenterai “Offshore” dal vivo?

Ho pensato a vari modi, ma poi dipenderà da cosa sarà possibile fare concretamente (e quando). Contrariamente a quanto fatto con il disco precedente, al momento non ho molta voglia di suonare da solo. Abbiamo iniziato a parlarne ora.

Grazie mille per il tuo tempo, vuoi aggiungere qualcosa per chiudere l’intervista?

Mi piacerebbe che l’ascoltatore di Offshore avesse voglia di attivare il circolo ermeneutico: arrivare in fondo alla tracklist e poi decidere di ricominciare. Interpretare l’inizio del racconto nella consapevolezza della sua fine per godersi tutti i giochi di rimandi reciproci tra i brani. Coglierne tutte le anticipazioni e finanche gli elementi premonitori. Grazie mille a te!

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C’è sospensione, c’è un viaggio che sembra definito soltanto dalla geografia ma che in fondo sembra restare in bilico, in balia. La lirica poi sembra davvero figlia di questo lockdown, sembra come nel video ultimo del singolo “Six Years Later”, dentro una Londra deserta. Sembra si possa intravedere qualcosa o qualcuno in fondo ma è solo una sensazione sperata. “Offshore” che il cantautore Marcello Capozzi ci ha restituito a stagione di 3 brani ciascuna, come fosse una serie televisiva… “Offshore” è un disco di forma pop, di sapore rock, di distopie ma anche di romanticismi. E poi è un disco “indie” e come tale gli si perdonano i cliché di questo filone ormai ancorato alle nostre abitudini…

Mi colpisce quando leggo: “tra Italia, Inghilterra e altre dimensioni”. Quali sono?
“Offshore” narra una storia unitaria che dilata sempre di più lo scenario di riferimento. Vi è un’impasse iniziale, poi una migrazione, uno spostamento geografico, una transizione che si gioca all’interno delle società umane. Tutto questo culmina in quella che nel comunicato stampa definisco “svolta ontologica” della narrazione, che si verifica nel momento in cui il protagonista del racconto si imbatte, per sua sfortuna, in episodi legati al terrorismo internazionale. Tali circostanze permettono al racconto di trovare un’apertura inattesa, una proiezione verso l’oltre e su uno scenario molto più ampio di relazione totalizzante con l’Essere. La dimensione dell’Esistente quotidiano all’interno della società viene superata in favore di una visione generale ed immanente dell’Eterno: un’ulteriore dimensione esperienziale e concettuale.

Questo disco lo hai introdotto dentro “stagioni”, piccole release digitali. Oggi il disco a racchiuderle assieme. C’è altro ancora? C’è un disco fisico?
Sì, le stagioni hanno introdotto la pubblicazione dell’album vero e proprio su supporto fisico in CD (con un bellissimo progetto grafico dell’illustratrice Jessica Lagatta). Le varie pubblicazioni hanno rappresentato un esperimento comunicativo, ma l’album è concepito per essere fruito auspicabilmente in un unico flusso di ascolto.

“Six Years Later”: ci colpisce questo suono dissonante ed è quasi dissonante anche il matrimonio con immagini apocalittiche di una Londra deserta. Come nasce questo brano?
La primissima bozza del brano l’avevo creata per il documentario “Il colore di sera” di mio fratello Spartaco. In realtà, per il documentario si puntava a utilizzare un brano di Cesare Basile, ma c’era bisogno di una soluzione alternativa nel caso da Catania avessero risposto picche. Poi Basile ha dato il suo assenso e così ho potuto rimettermi a lavorare sul mio brano con più calma, con altri obiettivi produttivi. A quel punto, ho iniziato a riflettere sull’idea di creare un episodio fugace per suggerire l’idea di una transizione temporale nel mezzo della narrazione di Offshore, una sorta di didascalia musicale. Il brano è dissonante in alcuni elementi fluttuanti ma è costruito anche su elaborazioni sinfoniche. Armonia e dissonanza coesistono. Alla stessa maniera, l’incrocio con le immagini può suggerire tanto un sinistro svuotamento, uno scenario apocalittico, come dici; quanto la quiete del risveglio, l’attesa leggiadra di un (ri)cominciamento.

E dunque la pandemia, le restrizioni e tutto quello che stiamo vivendo: anche questo ha determinato “Offshore”?
Il contesto pandemico non si applica a “Offshore”, essendo stato composto per l’89% in periodi antecedenti al Covid-19. Ma ne ha sicuramente determinato le modalità produttive (collaborazione a distanza, videochiamate, maggiore quantità di tempo trascorso in casa, eccetera).

E parafrasando questo titolo, se lo prendo dal verso corretto: stiamo in balia di cosa?
Non so risponderti in generale, ma personalmente vivo un profondo senso di inadeguatezza rispetto al tempo che viviamo. Mi sento disancorato e forse sono proprio in balia di questa mia mancata connessione con le modalità espressive del nostro tempo. Ma il personaggio di Offshore è molto più in gamba di me. Nonostante io gli abbia perfidamente messo intorno clamorose sventure, lui non è in balia di niente. Per lui la caduta è una risalita, il precipitare è un volo: anche nel perdersi ha una destinazione. Lui attraversa il nostro tempo, gestisce l’imponderabile, varca “la porta dello spavento supremo”, con una tale forza armoniosa, da darci ad intendere che la morte stessa non sia riuscita a fargli neanche un graffio. Questo personaggio immaginario è un eroe marginale.

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Si intitola “Offshore” il nuovo disco di Marcello Capozzi, fresco fresco di pubblicazione per la label abruzzese I Dischi del Minollo che ha sempre puntato una luce di attenzione verso lavori che portavano insisti nel proprio DNA la sospensione, la ricerca, il suono come esperienza. Capozzi codifica tutto questo anche nel seno del pop, urbano, viscoso e digitale all’occorrenza. Una “transumanza” di intenti, dall’Italia all’Inghilterra, nelle liriche come anche nel mood degli arrangiamenti. Poi le storie di questo storytelling si rendono libere di venir usate e codificate come più ci somigliano. Indaghiamo per saperne di più…

Il disco oggi raccoglie le “stagioni” di questo lungo viaggio. Col senno di poi pensi che ci sia stata coerenza dentro tutte le “stagioni”, le uscite singole… o pensi che, a risentirle insieme, ci sia una metamorfosi, un cambiamento, una trasformazione?
La coerenza del disco risiede nella permanenza di un discorso unitario lungo un percorso di mutazione. Non ci si aspetta dai personaggi delle serie tv di restare inalterati mentre il contesto degli eventi evolve intorno a loro. Walter White di Breaking Bad trasforma la sua attitudine nel corso delle stagioni; Lester Nygaard di Fargo abbandona l'iniziale timidezza e si fa progressivamente più scaltro. Nel nostro caso abbiamo utilizzato gli strumenti a disposizione dei musicisti (melodie, dissonanze, arrangiamenti, ingegneria del suono) per articolare quel tipo di trasformazione. Le uscite singole, che hanno anticipato la pubblicazione integrale di Offshore, hanno segnato delle tappe di avvicinamento propedeutiche alla diffusione del vero e proprio album nella sua interezza. Ma si è trattato di un approccio comunicativo: Offshore è un disco concepito e prodotto (tutto insieme) per essere fruito in un unico flusso di ascolto. I brani emanano gli uni dagli altri.

Italiano e inglese. Per osmosi l’una si mescola all’altra. Posso chiederti perché?
La lingua inglese si fa largo progressivamente come parte di un rinnovato armamentario espressivo, utilizzato dal protagonista della storia per ricominciare a costruire. Il protagonista la impara gradualmente, come una seconda lingua, diventando bilingue a tutti gli effetti. L'osmosi linguistica in tal senso (fino al momento dell'attentato di Mors Tua, vale a dire finché permane un concreto contesto fattuale in evoluzione) mi è sembrata una soluzione interessante per mappare geografie e marcare il passaggio del tempo.

Che poi mi colpisce anche questa copertina. Uno stormo, un tornado, una regola e un ordine… come la vedi tu?
La vedo per quella che è: un capolavoro di sensibilità da parte dell'illustratrice Jessica Lagatta. Si tratta di uno stormo che si muove, muta, cambia forma. Se ci pensi, sono elementi correlati alle osservazioni che abbiamo fatto io e te all'inizio di questa conversazione.

Parlaci del suono di Capozzi. Dal pop al digitale passando per qualche sperimentazione o sbaglio?
Ho un cognome troppo brutto per prendere sul serio un'espressione come "il suono di Capozzi". :-) Dopo un disco introverso e monolitico come Sciopero, con Offshore ho avuto desiderio di affrontare un percorso multicolore, risolutamente comunicativo e fatto di tante aperture armoniche. Vi si trovano varie declinazioni: dimensione acustica, elettricità noise, elettronica, folk, elaborazioni sinfoniche. Il tutto è però sostenuto da un'attitudine rock. Mi sembra che le varie transizioni espressive da un brano all'altro siano molto fluide (rimarco di nuovo che il disco è concepito per essere un unico flusso in metamorfosi). Per realizzare il progetto che avevo in mente, la presenza competente e appassionata di uno stacanovista del mixer come Carlo Natoli è stata determinante.

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Come si è evoluto il tuo rapporto con Londra in questi anni? Come ha influenzato il tuo modo di vedere e di fare musica? Se non erro sono quasi sette anni che vivi lì.

Quando arrivai a Londra, mi concentrai intenzionalmente ad accogliere gli aspetti maggiormente positivi dell’esperienza da affrontare. Benché attraversassi quello che finora è stato probabilmente il periodo più buio della mia vita, concepii la città come una grande opportunità. Ero famelico, curioso di gettarmi nel grembo di una capitale mondiale, effervescentemente multietnica e cosmopolita. Il desiderio di conquista mi parve un buon carburante per determinare una presa di controllo sugli eventi: sono sensazioni che ho rappresentato nel brano London Bridge. L’impatto combinato di Brexit e pandemia, la situazione di discredito internazionale in cui il Regno Unito si è progressivamente incuneato (in parallelo a una certa ostilità istituzionale nei confronti dello straniero), stanno rovesciando le sensazioni che avevo inizialmente abbracciato. Musicalmente: non so se sia un merito di Londra, ma adesso ho molte più antenne accese. Ad esempio, prima di venire qui non avevo mai messo su un disco intero di musica reggae di mia spontanea volontà.

Il disco l’avevi “pronto” nel 2016 ma esce solo nel 2022. Hai messo in “pausa” il musicista e dato priorità all’uomo?

La scrittura del disco era sostanzialmente conclusa nel 2016, ma lasciai appositamente alcune finestre compositive aperte per garantire freschezza al momento di effettiva produzione del lavoro (che è entrata nel vivo nel 2020). Progettare questo lavoro da migrante ha avuto il merito innanzitutto di tenermi compagnia, soprattutto durante il primo anno qui. Poi mi ha insegnato un principio caro a Paolo Sorrentino: vale a dire, che nella fatica di vivere si nasconda in realtà una grande bellezza. Il fatto che il disco esca nel 2022 dipende semplicemente dal fatto che non sono stato abbastanza bravo da ridurre i tempi di attesa.

“OFFSHORE”, il titolo del tuo nuovo lavoro, è concepito come una sorta di serie tv in tre stagioni in cui sono inseriti i 9 brani che lo compongono. Mi racconti ogni stagione e quale è il filo conduttore che caratterizza ogni stagione? Il protagonista di questa narrazione sei tu, il lavoro è totalmente autobiografico?

La prima stagione racconta l’ultimo periodo vissuto in Italia dal personaggio protagonista, la transizione verso Londra e poi l’impatto istintivo col nuovo mondo. La seconda stagione racconta la ricostruzione relazionale, la transizione temporale (che proietta gli eventi narrati a un certo numero di anni in avanti) e le circostanze legate al terrorismo internazionale nelle quali si imbatte il protagonista. La terza stagione racconta la condizione terminale del protagonista, l’attraversamento della “porta dello spavento supremo” e la connessione macrocosmica con la vastità dell’universale. OFFSHORE non è un’opera totalmente autobiografica e (dato che non mi auguro di morire per mano di un terrorista) spero anche che non lo diventi in futuro per via di una serie incredibilmente sinistra di premonizioni (ride, ndr).

Modello 730, Dei Miei Stivali, Six Years Later (uno dei due brani strumentali del tuo disco) sono i brani di cui c’è anche un videoclip. Come mai hai scelto di realizzare il videoclip di questi? Un elemento, tra l’altro, che ritorna sempre è l’acqua, è un caso?

L’acqua è un elemento che ha fornito spunti visuali che mi sono parsi adeguati alla prima parte di tracklist. La scelta dei brani è stata in parte voluta, in parte casuale. Il video di Modello 730 nasce perlopiù da una costola dei girati che avevo realizzato per Dei Miei Stivali. Con Andrew Johnson avevamo voglia di collaborare e abbiamo abbozzato un’idea per Mors Tua; ma lui aveva appena girato delle immagini molto belle che mi hanno suggestionato per Six Years Later. Si fa di necessità virtù. A breve sarà pronto il video del brano che da il titolo all’album (girato tra Italia, Inghilterra e Argentina). Sto valutando se aggiungere altro.

Che rapporto hai con la serialità? Quali sono le serie tv che hai amato di più?

Quando funzionano, le serie sono una grande forma di narrazione: le guardo con piacere, ma neanche con particolare frequenza. I miei amori sono banali: Breaking BadBetter Call SaulFargo (prima stagione). A causa della meravigliosa macchina del tempo di Get Back, ultimamente mentre esco di casa mi illudo di potermi trovare davanti la Londra del 1969. Small Axe (serie di film di Steve McQueen) si intrufola spesso nelle mie conversazioni con amici.

Nel disco ci sono diverse collaborazioni: Carlo Natoli, Sergio Battaglia, Andrea Sciacca, Salvo Scucces, Vincenzo Di Silvestro e Steve Head. Mi racconti come è nata la sinergia con ognuno di loro?

Avevo contattato Carlo inizialmente per affidargli mix e mastering dell’album, poi siamo finiti a co-produrlo. La qualità dell’interazione già dai primi test, e il fatto che in lui sia maturato un sorprendente senso di appartenenza al progetto, hanno portato la collaborazione su livelli di maggiore coinvolgimento. Le cose sono andate poi così bene che dal percorso fatto insieme è sorta un’amicizia. Sergio (Modello 730), Vincenzo (Dei Miei Stivali) e Salvo (Six Years Later) sono musicisti di spessore del network siciliano di Carlo: hanno collaborato a distanza, ciascuno in un singolo brano, con interventi raffinati e talvolta risolutivi. Andrea ha suonato la batteria in quasi tutto l’album, togliendo mille castagne dal fuoco e mettendo sul piatto una serie di intuizioni che hanno ispirato il mio modo di cantare. Steve è un musicista e songwriter londinese che stimo molto. Per un periodo mi sono recato settimanalmente da lui in Berwick Street (la finestra di casa sua è inquadrata nella copertina di Whats The Story Morning Glory degli Oasis). Quegli appuntamenti mi hanno stimolato tantissimo nel rimettere mano ai provini con energia rinnovata. In fase di produzione, mi è parso giusto omaggiare Steve invitandolo a suonare i synth in Offshore, il brano più lungo e che dà il titolo all’album.

Ci sono live/presentazioni in programma del disco? Dove possiamo seguire poi tutte le novità che ti riguardano nei prossimi mesi.

Pubblicare un disco con un’etichetta italiana, vivendo nel Regno Unito in uno scenario pandemico e post-Brexit complica parecchio le cose. Speravo che a Gennaio 2022 fossimo più pronti per fare programmi e invece toccherà attendere un altro paio di mesi per capire se ha senso dedicare pensieri all’aspetto live a breve-medio termine.

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Come e quando è nato questo progetto?

Nel 2012 scrissi la musica del brano Offshore, che dà il titolo all’album. Il testo arrivò lentamente, credo tra il 2013 e il 2014. Una volta conclusa la composizione (e mentre venivano fuori altre idee in parallelo), compresi col tempo che il brano avrebbe rappresentato il fondamento filosofico di un nuovo progetto discografico: andava coordinato un intero album intorno a quella canzone. Nel frattempo, intravedevo l’orizzonte della migrazione e tanti stimoli andarono a mescolarsi: un certo desiderio di abbracciare ampie prospettive, uno sconfinato attraversamento del nostro tempo verso l’oltre, partendo da un contesto iniziale di miseria. Veder muovere simultaneamente macrocosmo e microcoscmo come in un unico gesto, essere dentro al tempo e fuori dal tempo. Londra divenne a quel punto centrale per mettere in scena il racconto di una storia legata a un unico personaggio in transizione nel Regno Unito, nel suo personale percorso verso l’universale.

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

L’album Offshore ha mediamente arrangiamenti molti ricchi e dettagliati. Ma a un certo punto accade che, dopo il percorso ascensionale sviluppato a partire dalla prima stagione, con il folk oscuro di Mors Tua si torna a muoversi ad altezza uomo. Il brano è il racconto del momento in cui il personaggio protagonista della storia si imbatte in circostanze legate al terrorismo internazionale: l’atmosfera da western urbano si addice al contesto in cui si narra del fatale incrocio di sguardi tra due uomini separati da un’arma da fuoco. La timbrica vocale è più carica rispetto ai brani precedenti del disco, a voler interpretare la maturazione del personaggio protagonista, in un percorso dilatato nel tempo. Essendo un brano arrangiato in maniera scarna intorno al mio temperamento espressivo (con molti meno elementi affastellati in stereofonia rispetto alla maggior parte degli altri brani dell’album), inevitabilmente finisce anche per rappresentarmi da vicino come interprete musicale.

Progetti futuri?

Smontare il set immaginario di Offshore, toglierlo da Londra e portarlo dalle parti del Nord Africa: “Certo le circostanze non sono favorevoli / E quando mai” (come cantavano i PGR). Anche questo, non sarà un progetto di facile realizzazione.

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Un primo Ep, una prima stagione, un lento procedere come fosse una dolce deriva come anche si celebra in questo suono industriale, poco ostinato, quasi sospeso. E quando tutto questo accoglie anche la bella lirica della canzone d’autore, che un poco si fa inglese e un poco italiana, allora il risultato affascina e non poco. Lui è Marcello Capozzi e noi parliamo di Offshore - Prima Stagione pubblicato da I Dischi del Minollo che spesso pone attenzione a lavori di deriva, lavori periferici, lavori dentro cui la musica diviene mezzo non solo per le liriche ma anche per visioni umani e spirituali. E forse, come qualcuno asserisce, avrebbe senso parlare di un “post-pop”, scenario quasi dedito all’apocalisse che stiamo vivendo


Ascoltando il tuo primo Ep, ho l’impressione che ci siano due piani di evoluzione, almeno in questa prima stagione. La prima è l’intimità. I primi due brani sono industriali, intimi, sospesi… “London Bridge” sfocia nelle soluzioni pop rock più radiofoniche… vero?
Nell'incipit della prima stagione di "Offshore" c'è solitudine: per molti versi fiera, ma in qualche modo anche atterrita. L'intimità di "Modello 730" è sospesa perché il personaggio protagonista non ha ancora trovato la quadra della propria esistenza, che non è risolta e nemmeno in movimento verso qualcosa. "Dei miei stivali" innesca un movimento di trasformazione e rivoluzione personale. "London Bridge" prosegue il lavoro con un ulteriore salto energetico. Trattandosi di un concept seriale, i brani sbocciano gli uni dagli altri: ogni pezzo è consequenziale all'altro. Sul concetto di "radiofonico" invece ho difficoltà ad esprimermi: in base a gusti e criteri probabilmente anacronistici, tenderei a passare tutto il disco alla radio

Il secondo è il viaggio… sembra che dall’Italia da lasciare si passi all’estero da mitizzare… che poi si torni alla nostalgia di casa… almeno questa è la mia personale codifica del “ponte” che mi fai “vedere” nella chiusa…
Per quanto mi riguarda, il movimento innescato dalla "prima stagione" è irreversibile: sul piano degli eventi narrati non vi è ritorno. Il concetto stesso di "Offshore" indica letteralmente uno spingersi al largo, in mare aperto. Figurativamente, si tratta di confrontarsi con l'oltre. Certamente "London Bridge" rappresenta un momento liberatorio di entusiasmo esterofilo, un abbraccio multietnico e cosmopolita. Ma la Londra della seconda stagione diventerà lo scenario sinistro di ben altri accadimenti. Relativamente al "ponte": in quel contesto, a me suggerisce un'immagine legata alla costruzione protesa al futuro. Il retaggio originario (Mother legacy) rotola via, libera il campo e va in frantumi, mentre ci si proietta in avanti alla ricerca di una nuova storia

Parliamo del suono: classico ma anche ruvido e insofferente… che mi dici?
Al di là delle varie declinazioni lungo lo scorrere dell'intera tracklist (nelle prossime stagioni avremo passaggi di elettronica, folk a stelle e strisce, elaborazioni sinfoniche), il disco mantiene un'attitudine rock, intesa come inclinazione al graffio. Il temperamento espressivo è quello. Carlo Natoli ha sperimentato svariati master alternativi per giungere al punto di equilibrio che ci pareva giusto, tenendo conto dell'eterogeneità degli stimoli sonori disseminati nelle diverse sezioni dell'album

E oggi questa dimensione digitale degli Ep così come della diffusione digitale… ma cosa c’è di sbagliato secondo te? Il digitale sembra quasi come la Londra che cerchiamo di raggiungere… come per fuggire…
Navigo a vista. Quando vai in un altro paese, e ricostruisci tutto da zero, riesci a fare a meno di tante cose. Ho vissuto per due anni nella cucina di un sottoscala di Highgate e prima di allora avevo alloggiato in una minuscola stanza con la caldaia nell'armadio: certamente non potevo pormi il problema di curare la biblioteca, o avere la migliore collezione di vinili. Non avevo spazio e dovevo essere sempre pronto a traslocare. Quello che dispiace è la perdita di qualità nell'ascolto, oltre alla frammentarietà. Ma, a parte questo, tendo ad essere pragmatico. "Offshore" comunque uscirà su supporto fisico a Gennaio 2022 con un eccezionale progetto grafico dell'illustratrice Jessica Lagatta: in questo caso, le stagioni seriali anticipate in digitale si ricomporranno nell'unico flusso di ascolto del CD.

Torneremo a qualche punto di origine secondo te?
Non muovendosi ad altezza uomo. Abbracciando una visione generale e immanente dell'eterno: in qualche modo, sì