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interviste AUGUSTINE

Benvenuta Augustine, grazie per averci concesso quest’intervista.


1) Come è nato il nome d’arte? Potresti raccontarci un po’ la tua storia artistica?
Vengo da una formazione artistica sostanzialmente visiva. Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Perugia, dove mi sono laureata in pittura al corso del prof. Cardinali. È stato lì che ho incontrato Augustine per la prima volta: stavamo facendo delle letture degli scritti del filosofo dell’arte Georges Didi-Huberman ed io mi appassionai a L’invenzione dell’isteria, perché il tema dell’isteria, come misteriosa malattia del femminile, mi incuriosiva molto, sentendolo a me vicino. In effetti, il libro parla di come la diffusione di quella “malattia”, con le sue manifestazioni plateali, fosse inscindibilmente legata al proprio essere messa in immagine. Era l’Ottocento e si diffondeva in quel periodo la prima fotografia; attraverso quel mezzo i medici “catalogavano” gli atteggiamenti delle isteriche. È proprio questo il punto cruciale che mi interessa e che mi ha spinto ad adottare il nome della protagonista del saggio come nome d’arte: il porsi come soggetto e oggetto allo stesso tempo, essere immagine di me stessa, senza poter prescindere dal mio essere donna, con tutte le complessità e le problematicità che questo comporta. Che poi il mezzo espressivo sia la pittura (l’arte visiva in generale), la scrittura o la poesia è una questione secondaria per me, anche se la musica è il mio canale preferenziale, almeno in questo periodo della mia vita.

2) Il ruolo dei cantautori è sempre stato soggetto a cambiamenti. Qual è la tua opinione sui compiti (ad esempio politici / sociali / creativi) dei cantanti e come raggiungi questi obiettivi nel tuo lavoro?
È senza alcun dubbio che un artista abbia una responsabilità sociale di ciò che fa e che di questo debba essere sempre ben cosciente. Non penso però che il fine dell’arte debba essere diverso dalla poesia stessa, oggi come sempre. Al contrario, poi, in un momento in cui troppi denunciano, si indignano, fanno gli opinionisti, credo che riportare il fuoco al centro dell’atto estetico sia la cosa migliore che si possa fare. Non ho mai avuto la presunzione di parlare a nome di qualcuno, né del resto permetterei mai che ciò accada, essendo i miei contenuti fortemente personali, di un’intimità inviolabile. Quando mi accorgo che la mia musica arriva come un’eco a toccare nel profondo l’altro e risuona nell’animo altrui, facendone vibrare le più segrete corde, io sento di aver assolto a tutti miei compiti e sono enormemente appagata.

3) Il tuo album “Proserpine” è uscito il 16 aprile del 2021, puoi parlarci di questo lavoro?
Ho iniziato a pensare a Proserpine quando mi sono resa conto che i brani che stavo componendo erano tutti legati da un filo conduttore, sia in termini di contenuti che di sonorità. In particolare, ciò che li accomunava era un senso di reclusione, di prigionia, di auto-esilio. Un’immagine avevo in mente: il quadro di Dante Gabriel Rossetti Proserpina, che ritrae la dea nell’atto di guardare verso un fugace sprazzo di luce momentaneamente apertosi dalle porte del palazzo dell’Ade. Proserpina divenne l’immagine guida delle mie composizioni ed iniziai a scrivere identificandomi con la figura del mito, filtrando il racconto auto-biografico con le sue simbologie e vicissitudini. Il mito di Proserpina parla di morte (il precipitare nell’Ade), ma anche di rinascita (la risalita al mondo nei mesi primaverili). Proprio questo viaggio rituale compio, insieme con le mie canzoni.

4) Quanto tempo ha richiesto la realizzazione dell’album?
Le mie gestazioni sono sempre elefantiache. Ho iniziato a comporre i primi brani prima ancora che Grief and Desire, il mio album precedente, fosse uscito, nel 2017-2018, proseguendo poi nel 2019. Alla fine di quell’anno avevo registrato in casa tutti e demo e nei primi mesi del 2020 ero finalmente in studio a “La Cura Dischi”. Il lavoro però è stato interrotto dal primo lockdown ed è quindi stato portato a termine solo nell’autunno dello stesso anno. Finita la fase di registrazione, ci è voluto del tempo per valutare come meglio valorizzare l’album e questo tempo – vista la situazione pandemica, nel frattempo giunta alla sua seconda ondata – me lo sono preso con la dovuta tranquillità. Sono finalmente entrata in contatto con “I Dischi del Minollo” verso Febbraio. Ed ecco finalmente che Proserpine è venuto al mondo, diciamo dopo almeno tre anni.

5) Attualmente, è difficile pubblicare un disco?
La pubblicazione di un disco in sé è qualcosa che oggi è davvero alla portata di tutti; il problema è il come. Io stessa vengo da anni di auto-produzione e mi accorgo quanto sia importante per un artista non essere solo nel momento di un release. Credo che il supporto di un’etichetta, di un produttore o di un ufficio stampa siano fondamentali. Da questo punto di vista, forse, oggi un artista corre anche qualche rischio in più: la situazione di crisi generalizzata, aggravata dalla pandemia, rende tutti più affamati; gli squali aguzzano i denti.

6) Come stai affrontando questo periodo in piena fase pandemica da virus SARS-CoV-2?
Ho fatto molta fatica, soprattutto all’inizio, ad accettare tutti quei provvedimenti che limitano la libertà di un individuo. Ovviamente la cancellazione di concerti ed eventi dal vivo è una tragedia per tutti i lavoratori del settore, lo è anche per me. Tanto più in questo momento, in cui la promozione live del disco appena uscito sarebbe la cosa più naturale da fare. Ho dovuto adattarmi, come tutti, e trovare dei modi costruttivi per sfruttare questo tempo dilatato. Mi dedico a me stessa e alla mia musica in tutti quegli aspetti che posso portare avanti da casa. Al di là, però, della momentanea (speriamo) perdita di “socialità” musicale, devo dire che poco è cambiato nelle mie abitudine artistiche, da sempre volte ad una certa solitudine e all’introspezione.

7) Quanto di personale c’è nelle tue canzoni?
Tutto. Non vedo come si possa prescindere dal sé, nell’atto estetico; io, ad ogni modo, non ne sono capace. Anzi, nella musica spesso mi trovo, mi ritrovo, è il mio mezzo per identificarmi e tenere bene a mente chi sono. Sono ciò che faccio, c’è una coincidenza totale.

8) Cosa significano per te improvvisazione e composizione? Quali sono per te, i loro rispettivi meriti?
L’improvvisazione – limite mio – è una modalità del fare che mi è piuttosto estranea. D’altro canto, la composizione è per me qualcosa di estremamente naturale: quando scrivo una canzone non faccio che dare forma ad un’idea originaria che è del tutto completa, dai suoni, alle armonizzazioni vocali e all’arrangiamento. Semmai, con il tempo, posso dire di aver imparato ad accogliere il caso come il benvenuto nel processo compositivo. Spesso il caso ci regala delle soluzioni miracolose a cui non avremmo mai pensato.

9) Come giudichi l’uso della tecnologia e dei social media al servizio della musica?
Sono un’arma a doppio taglio. Bisogna stare molto attenti a saperli sfruttare e non a farsi sfruttare da essi (cosa che comunque in parte accade nostro malgrado). Bisogna essere capaci di appoggiarvisi come a dei mezzi, che è quello che dovrebbero essere, e non a diventare noi stessi il mezzo di qualcosa. Offrono effettivamente grandi possibilità anche a pesci piccoli come me, ma rimangono del resto delle caselle rigide dove si è in qualche modo costretti ad entrare, a volte a prezzo di qualche piccolo auto-tradimento od omissione. Bisogna muovervisi con intelligenza, imparare una certa scaltrezza.

10) Che consigli daresti ai nuovi artisti che desidererebbero emergere?
Direi loro in primis di non intraprendere questo percorso con lo scopo di emergere. Invece, tastarsi bene, guardarsi allo specchio, fare un bell’esame di coscienza e chiedersi davvero se si ha qualcosa da dire. Le idee sono tutto, se mancano quelle produrremo involucri vuoti e saremo solo personaggi in cerca di un autore. Se le idee ci sono, avere ben chiaro come devono essere espresse, perché non è vero che esistono tanti modi di dire la stessa cosa. Se è tutto chiaro, lottare con tutte le forze per dare al proprio lavoro la visibilità che merita e qui bisogna veramente guardarsi le spalle di continuo. Mai cedere ad illusioni. Non nutrire alcun tipo di aspettativa. Fidarsi sempre solo di chi è all’altezza di ciò che facciamo, di chi lo sa cogliere e valorizzare, senza fraintendimenti, senza volerlo trasformare in qualcos’altro. Ed essere dannatamente ostinati sempre, fino all’ottusità.

11) Gli artisti spesso vivono immersi nelle emozioni del presente. Il futuro ti spaventa? Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il futuro è stato per molto tempo nient’altro che un’enorme buco nero, senza aria, senza luce, senza alcuna prospettiva (e credo purtroppo sia una visione molto diffusa nella mia generazione). Sono terrorizzata dal tempo che avanza, dalla paura di crescere, cambiare, invecchiare. Niente mi toglierà mai queste paure, ma qualcosa è accaduto nella mia vita negli ultimi mesi ed ha cambiato ogni mia prospettiva. Ora penso all’indomani come ad una strada aperta, da percorrere un passo per volta. Mi difendo proprio così, vivendo ogni giorno per sé, succhiando il nettare della vita con grande avidità. Non sono una persona capace di fare progetti, purtroppo per me e per chi mi circonda, ma nel mio futuro la musica (l’arte) terrà sempre per mano la vita, questo è certo; indipendentemente dall’esito dell’uscita di Proserpine e da ogni possibile sviluppo della mia “carriera”; sarà sempre così. Quando si spegnerà l’una, si spegnerà l’altra.

Ti ringraziamo per averci dedicato un po’ del tuo tempo libero.

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COLLETTIVO INCONSCIO

Sara Baggini, in arte Augustine.

Il suo lavoro più recente, Proserpine, è uno scrigno magico in cui le prospettive si confondono. Le tredici tracce che compongono l’opera si presentano come veri e propri bassorilievi musicali, resi tali grazie al connubio tra l’intensa interpretazione vocale dei testi e gli arrangiamenti essenziali. Se però contempliamo Proserpine nella sua interezza ci accorgiamo che le singole parti costituiscono un unico poema elegiaco, uno “studio sulla sensibilità femminile” come è stato definito in una recensione polacca.

LG: da Grief and Desire a Proserpine sono trascorsi tre anni: ritieni il tuo ultimo lavoro un punto di arrivo o un nuovo inizio?

A: Spesso i due contrari coincidono. Dipende in che direzione volgo il mio sguardo, avanti o indietro. Ho sempre pensato a Proserpine come ad un “salto di qualità” rispetto a Grief and Desire, non perché sia migliore, ma perché è un lavoro più maturo. È chiaro, però, che a questo punto le strade si aprono verso possibilità ancora nuove, di cui Proserpine non custodisce che i germi.

LG: Pur essendo una polistrumentista (chitarra, basso, piano rhodes, sintetizzatori, percussioni…) in Proserpine hai scelto deliberatamente di scrivere arrangiamenti asciutti, quasi minimali. Vorresti parlarci dei motivi che ti hanno spinta verso questa scelta stilistica?

A: Rispetto a Grief and Desire sentivo l’esigenza di tornare un po’ alle mie origini, al mio primo album, One Thin Line. I nuovi brani lo richiedevano, essendo stati composti essenzialmente con chitarra e voce. In un certo senso li sentivo già quasi completi in quella forma. Non volevo orpelli, solamente l’essenziale, solamente il necessario. È stato proprio uno dei capisaldi da cui siamo partiti il mio produttore, Fabio Ripanucci, ed io. Il suo aiuto è stato fondamentale anche nell’asciugare i suoni, che nell’album precedente risentivano pesantemente dell’influenza di alcuni cliché di derivazione “wave”. Inoltre, desideravo che ad essere protagoniste degli arrangiamenti, piuttosto che gli strumenti, fossero le armonizzazioni vocali: è vero che, se c’è la necessità, mi arrangio a suonare di tutto (pur avendo scarse conoscenze), ma il mio strumento rimarrà sempre la voce.

LG: da cultore della grafica dei dischi devo dire che la copertina di Proserpine è di quelle che non si dimenticano: vorresti raccontarci come è nata? E cosa rappresenta il melograno?

A: Quando concepisco un nuovo lavoro, un nuovo album, l’immaginario visivo è sempre parte del processo creativo. In realtà è stato un quadro, Proserpina di Dante Gabriel Rossetti, a suggerirmi l’idea di un’identificazione e a guidare l’intero lavoro. L’immagine – tra i miei quadri preferiti – rappresenta la dea nell’atto di gettare uno sguardo fugace verso un’apertura momentaneamente apertasi dalle porte del palazzo dell’Ade: quello sguardo era esattamente come il mio. La foto di copertina, opera dell’artista Francesco Capponi, è una sorta di tableau vivant di quel dipinto. Per l’occasione è stato utilizzato un autentico banco ottico vittoriano, non solo per amore della filologia (il dispositivo è contemporaneo e conterraneo di Rossetti) ma proprio per conferire all’immagine una grande distanza, una connotazione temporale lontana. È Rossetti stesso ad eleggere il melograno come simbolo del destino di Proserpina. Come il mito racconta, la dea avrebbe potuto salvarsi e riemergere dagli inferi, dove Plutone l’aveva condotta per farne la sua sposa, se solo “non avesse toccato alcun frutto dei giardini dell’Ade” – così aveva sentenziato Giove, di fronte alle disperate richieste di Cerere di liberare la figlia. Ma Proserpina aveva mangiato un chicco di melograno e questo la condannò. Il melograno diventa sigillo di inesorabilità. L’elemento è stato chiaramente mantenuto anche nella foto di copertina (e tra l’altro Pomegranate è anche il titolo di un brano) ed è opera in ceramica dell’artista Maria Diletta Rondoni.

LG: l’intro di The Dark Place ha connotati fortemente sperimentali: qual è il tuo rapporto con la musica di ricerca come l’elettroacustica o l’ambient?

A: Premetto che non faccio nulla per amore della sperimentazione; anche laddove mi addentro in territori più impervi è sempre per ottenere un risultato ben preciso che ho in mente, come nel caso dell’intro di The Dark Place. Qui mi sono spinta forse verso una possibile deriva della mia musica, quella di creare brani quasi totalmente vocali, con varie stratificazioni che si intrecciano (anche non necessariamente in armonia). Realizzare un album esclusivamente vocale è un mio desiderio da tempo e prima o poi lavorerò certamente in questo senso. Non posso non citare l’influenza di musica come quella di Julianna Barwick o Meredith Monk o persino Enya (artiste provenienti da mondi totalmente diversi
ma accomunate dal fatto di lavorare sulla stratificazione vocale) sul mio lavoro. Talvolta non mi dispiace ascoltare musica ambient, per esempio amo Brian Eno anche nelle sue espressioni più rarefatte, oppure adoro l’album Digital Shades Vol. 1 di M83: mi sento vicina a quel tipo di musica per una sorta di “ricerca di elevazione”, che poi spesso equivale ad un tuffo nell’abisso, anche se so di possedere un animo troppo inquieto per poter creare qualcosa che vada davvero in quella direzione

LG: tutti noi prima di essere musicisti siamo stati consumatori di musica (e fortunatamente lo siamo tutt’ora): quali aspetti di un disco catturano da sempre la tua attenzione?

A: Credo più o meno gli stessi aspetti che catturano ogni consumatore di dischi. Certamente l’immagine di copertina, o meglio: l’immaginario visivo che accompagna un’uscita; con esso, anche la scelta dei materiali e delle tecniche di stampa. La track-list è un’altra cosa che leggo sempre prima di un acquisto o un ascolto: i titoli mi devono veramente incuriosire, così come il titolo del disco. Ma in generale sono una consumatrice piuttosto selettiva, quindi devo ammettere che l’essere il prodotto di un artista che amo e da cui mi aspetto molto è in assoluto il requisito più importante per me.

LG: aver vestito i panni della dea dell’oltretomba ha cambiato la tua personale visione della vita e della morte?

A: Mi permetto di ribaltare il periodo: ho vestito i panni della dea dell’oltretomba proprio perché c’era (e c’è) una ben precisa – ed assolutamente personale – visione della vita e della morte; non si è trattata di una scelta programmatica, si è trattato, semmai, di constatare una condizione che riconduceva al mito. Io ero già lì, in quell’esatto punto. Portare a termine questo lavoro non ha cambiato la mia visione delle cose, al contrario, ne ha dato piena espressione; posso dire di aver condotto un complesso processo interiore – non solamente artistico – fino in fondo, di aver toccato il fondo dell’abisso e di esserne risalita. E la figura di Proserpina (insieme ad altre figure femminili provenienti da mito o letteratura, che di volta in volta incarno) è tutt’altro che passeggera nella mia esistenza.

LG: Proserpina rimarrà nelle profondità dell’Ade o tornerà a osservare le stelle?

A: Come il mito stesso racconta, credo che Proserpina continuerà per l’eternità a trascorrere parte della sua esistenza nell’oscurità degli inferi e parte nella luce della vita. Morirà e rivivrà milioni di volte. O forse continuerò – e qui mi riapproprio della prima persona – a camminare su quel filo sottile, quella cresta dove il punto più alto e quello più basso dell’esistenza coincidono fatalmente. Del resto non sono capace di posizionarmi altrove.

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Benvenuta tra le nostre righe, Augustine. Un nuovo disco che in qualche modo sdogana il tuo suono e la tua scrittura dentro una produzione più importante. Come hai vissuto questo processo?

Grazie e buongiorno a voi! Devo dire che si è trattato di un processo del tutto naturale. Dopo la realizzazione del mio album precedente, “Grief and Desire”, molte cose iniziarono a cambiare. Tanto per cominciare, sono uscita gradualmente dal mio isolamento, suonando dal vivo e conoscendo molti altri musicisti. Questo ha favorito molti scambi e arricchimenti, oltre alla possibilità, appunto, di coinvolgere altre persone nella realizzazione del mio lavoro successivo. Inoltre, mi furono a quel punto chiari i limiti di “Grief and Desire”, conseguenza, principalmente, dell’auto-produzione totale. Nel momento in cui ho iniziato a comporre i brani di “Proserpine” mi fu subito chiaro che c’era la necessità di un cambiamento, di un salto di qualità; le canzoni stesse lo richiedevano, perché mi rendevo conto di aver raggiunto con esse un maggiore grado di maturità artistica. Dunque in un primo momento mi sono occupata della pre-produzione in home recording come al solito, non volendo rinunciare alla mia consueta indipendenza nella scelta degli arrangiamenti, avendo però bene a mente il fatto che si trattava solo di un passaggio iniziale, perché poi tutto il materiale sarebbe stato rimaneggiato in studio, a “La Cura Dischi” di Perugia. Chiaramente per la produzione mi sono affidata ad amici di cui ho totale fiducia, Fabio Ripanucci e Daniele Rotella. In studio sono avvenuti i cambiamenti più importanti in questo senso, soprattutto a livello di suono. Ed infine, la scelta di non rimanere sola nemmeno nella cruciale fase di post-produzione e promozione dell’album: è qui che è avvenuto il mio incontro con l’etichetta “I Dischi del Minollo”, che sta dando a “Proserpine” molte più chance di quante non ne abbia avuto l’album precedente, nonostante la momentanea assenza di concerti.

Un po’ tutto l’immaginario del disco ha soluzioni “antiche”. Rivolgi molto lo sguardo al passato, Augustine, gli arredi del video, il tuo modo di apparire sul disco… Perché?

Tutta la musica che amo suona “remota”, pare venire da lontano, nello spazio e nel tempo. La mia stessa musica ha questa esigenza, un po’ certamente per osmosi rispetto a ciò che ascolto, ma anche perché, in fondo, parlo sempre di un altrove. I testi, le melodie stesse possiedono questa distanza. Ecco perché, nel parlare di me, ho bisogno di indossare delle vesti che non sono mie (ma sono, per esempio in questo caso, quelle di Proserpina): per raggiungere una dimensione parallela rispetto alla vita, alla quotidianità, all’autobiografia. Questa lontananza non ha necessariamente a che fare con il passato, o con l’antico. È uno spazio di tempo fuori dal tempo. Tutte le forme d’arte hanno questa straordinaria capacità di rompere l’orizzontalità del tempo e creare un corto-circuito temporale; la musica, chissà perché, lo sa fare con mezzi persino più immediati, che mettono violentemente in moto la nostra emotività, raggiungendo gli abissi più ancestrali del nostro animo.

Eppure tutto il lavoro mi sembra assai futuristico. Dunque ti chiedo: quanto passato ci sarà nel futuro?

Sono molto felice di questa affermazione, proprio perché mi permette di rimarcare ciò che stavo dicendo. Quando penso alla temporalità che un quadro, una poesia, una canzone possiedono, penso al “L’intuizione dell’istante” di Bachelard: un impennarsi del tempo sul presente, poiché il presente è l’unica condizione temporale che esperiamo direttamente, dal momento che il passato ed il futuro sono comunque proiezioni sul presente di un ricordo o di qualcosa di immaginato. Questo istante contiene in sé tutto, passato, presente e futuro, in uno squarcio prodigioso della quotidianità. Ciò per quanto riguarda l’atto estetico; rispetto alla nostra futura attualità non saprei rispondere, non mi interessa granché la direzione generale dell’umanità. Posso limitarmi ad osservare, e per quello che vedo, di passato ce ne è poco anche in questo presente; del resto, checché se ne dica, non vedo nemmeno grandi proiezioni futuristiche. Noto solo un enorme impoverimento, soprattutto culturale, che temo non possa far altro che peggiorare in futuro; un modo sterile di guardare persino all’oggi. Ma al di là di tutto, l’arte continuerà ad esistere e in quegli atti e nei loro prodotti continuerà ad esserci un’enorme ricchezza, un’abissale vertigine temporale.

Altra domanda che nasce dalle mie piccole impressioni: quanta fatica hai / avete fatto per non far cadere questi brani dentro cliché pop rock abitudinari?

Non posso certo parlare di fatica in questo senso, perché i brani di “Proserpine” sono già nati con tutti gli anticorpi. Avevo un’idea chiarissima degli arrangiamenti e ho fatto in modo che fosse rispettata fino alla fine. Del resto, anche la musica che ascolto è libera da qualsiasi cliché, dunque certe tentazioni non si affacciano nemmeno nel mio processo compositivo. Il pop-rock forse non è nemmeno l’ambito in cui mi posso inserire con la mia musica. Semmai, ho dovuto prestare attenzione ad altri rischi, per esempio cedere a certe sonorità tipiche della musica wave degli anni ’80, che io adoro e di cui “Grief and Desire” è pieno. Lo shoegaze attuale, per esempio, è pieno di cliché in questo senso; non sono quelli più comuni del pop-rock, ma lo sono comunque (motivo per cui ascolto questa musica sempre con un certo sospetto). Lavorare in studio con altre persone è stato molto utile anche in questo, dal momento che ciascuno di noi ha potuto esercitare la propria vigilanza sull’operato e sulle scelte stilistiche altrui.

Ed in ultimo, Augustine: l’elettronica quanto è intervenuta e quanto ha contaminato il tuo scenario artistico?

Quando concepisco un brano, lo concepisco sempre nella sua interezza e ho già chiaramente in mente i suoni di cui ha bisogno; per ottenere questi suoni, poco mi importa se necessito di mezzi analogici o digitali, elettronici, acustici od elettrici: prendo ciò che mi serve, mi piace avere libertà totale in questo. Non sono certo una purista. Di volta in volta, si valuta ciò di cui c’è bisogno. Non c’è alcuna scelta programmatica in anticipo, in questo senso; ecco perché alcuni brani dell’album sono sostanzialmente acustici e altri contengono elementi “artificiali”. Lavorare in studio mi ha certamente permesso di operare con alcune strumentazioni dal suono fortemente caratterizzante (come il Moog o il Rhodes), ma tanti elementi sono stati, per scelta, mantenuti totalmente digitali (come per esempio le drum machine). È chiaro che l’avvento del digitale nelle produzioni musicali ha aperto a delle possibilità straordinarie, inimmaginabili fino a qualche decennio fa; ma – di nuovo, a proposito di rischi e cliché – quando tutto è più accessibile, bisogna alzare la guardia.

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“Proserpine” è un disco che mi par esser di passaggio… sembra come se lo fosse. Non hai mai avuto questa sensazione?

Non avevo mai pensato a “Proserpine” in questi termini, forse perché ogni mio disco è sempre preceduto da lunghe gestazioni e risulta poi essere un lavoro molto compatto; tendo a concepire ogni album come una specie di monolite, ognuno come un mondo a parte, estremamente coerente al suo interno. Ma riflettendo sulle vostre parole, posso forse immaginare che questa sensazione sia dovuta al fatto che in fondo l’album racconta di un viaggio, un viaggio introspettivo, un precipitare nell’Ade, appunto. Forse è un passaggio di cui ciascuno di noi ha la propria, intima esperienza.

Io partirei anche dal suono. Industriale, lontano, antico a tratti… per alcuni momenti mi fai pensare alle oscurità di P J Harvey. Cosa mi dici?

Indubbiamente album di PJ Harvey come “White Chalk” e “Let England Shake”, che adoro e ho ascoltato moltissimo, possono avermi influenzata in questo senso. Ciò che apprezzo di quei dischi, tra molte altre cose, è che gli arrangiamenti sono essenziali, senza orpelli. Questa è una delle linee guida che il mio produttore, Fabio Ripanucci, ed io abbiamo seguito durante la lavorazione del disco. Per il resto, il suono generale dell’album è esattamente il risultato di questo incontro personale. Ciò che risulta “remoto”, nello spazio e nel tempo, è senz’altro farina del mio sacco (e proviene indubbiamente dalle mie personali influenze musicali, tra cui posso citare, per esempio, Dead Can Dance e Cocteau Twins); quel tocco “industrial” un po’ alla Death in June, la profondità e la freschezza dei suoni sono invece opera di Fabio. 

Quanti sono i ponti verso la letteratura del mito greco?

I riferimenti sono costanti, dal ratto della dea al melograno, frutto fatale che condanna Proserpina alla sua prigionia nell’aldilà; i fiori, che fanno la loro comparsa qui e là nei brani, sono certamente un altro attributo della dea, divinità delle messi e della primavera, oltre che degli inferi: tra questi, gli anemoni, secondo il mito nati dal sangue del morente Adone, amato da Proserpina… Tuttavia, è chiaro che l’album non voglia essere una trasposizione pedissequa del mito: il mito si affaccia nella narrazione e diventa un filtro che conferisce all’autobiografia una dimensione “altra”, più remota, appunto; esattamente come nel quadro “Proserpina” di Dante Gabriel Rossetti (immagine guida del mio lavoro): il ritratto di una donna, nelle vesti della dea, acquisisce una dimensione diversa, una vertigine temporale.  

E quanti invece sono rivolti ad una spiritualità più mistica, forse meno quotidiana…?

Preferisco parlare di “sacralità”, piuttosto che di “spiritualità”. È indubbio che nella mia musica, nel mio viverla, si manifesti un rapporto con una dimensione sacrale (e non “religiosa”!). Da qui anche la scelta dell’identificazione con una divinità antica. Il canto è un’invocazione, un ponte gettato verso un altrove di cui non conosco nulla ma esperisco tutto. 

E se ti chiedessi se esiste della “magia” in questo disco?

“Magia” è un altro termine che non uso volentieri. Mi auguro, però, che questo disco abbia un suo potere, certamente: quello di far risuonare l’animo altrui delle stesse vibrazioni del mio; quello di saper condurre il prossimo in un luogo lontano, in un viaggio verso un abisso profondo, brulicante di immagini e di vita, fino al ritorno in superficie, dove la luce è accecante. Questo vorrei saper fare con la mia musica.

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   IL BLOG DELL'ALLIGATORE

 

Come è nato Proserpine?

Proserpine ha incominciato ad affacciarsi al mondo in un momento non bello della mia vita personale, ma straordinariamente fecondo della mia vita artistica, quando, tra il 2017 e il 2018, iniziai a comporre una serie di nuove canzoni che erano tutte legate da un filo conduttore, sia come strutture melodiche-ritmiche, sia come contenuti. Mi resi conto che avevo iniziato così a lavorare a un nuovo album.

Perché questo titolo? Cosa vuol dire?

Questo filo conduttore tematico riguardava un senso di prigionia, di reclusione, di auto-esilio: mi si affacciò alla mente – e da quel momento fu l’immagine guida del mio lavoro – il quadro di Dante Gabriel Rossetti Proserpina, che ritrae la dea latina dell’oltretomba nell’atto di guardare fugacemente verso uno sprazzo di luce apertosi dalle porte del palazzo dell’Ade. Quello era anche il mio sguardo verso l’esterno, da dietro una finestra. Decisi così di lavorare intorno a quel nome, mettendo in atto un fatale gioco di identificazione con la figura mitologica della dea e di seguirla nelle sue vicissitudini, di assumerne le simbologie come filtro per la mia narrazione auto-biografica – passaggio spesso presente nel mio lavoro musicale. Il mito di Proserpina racconta della discesa nell’Ade e della risalita al mondo: morte e rinascita, un viaggio che stavo vivendo e che da quel momento ho vissuto insieme con la stesura dell’album. Ho dovuto visitare l’abisso, per poterne riemergere con questo lavoro, dando vita a Proserpine e prendendone una nuova per me.

Come è stata la genesi del disco, dall’idea iniziale alla sua realizzazione finale?

Una volta messo insieme tutto il materiale composto, mi sono chiaramente organizzata per tutte le fasi successive. Prima di tutto ho registrato a casa i demo delle tracce, dove già erano presenti tutti gli arrangiamenti (che ho già ben chiari in mente nel momento stesso in cui compongo un brano). In studio abbiamo poi analizzato il materiale, decidendo quali strumenti necessitavano di essere ri-registrati e cosa invece mantenere della mia pre-produzione. È stato un lavoro lungo e accuratissimo, tra l’altro interrotto dal primo lockdown. Infine, ci siamo dedicati al mastering e, a disco finito, è iniziata la mia ricerca di una realtà discografica indipendente che potesse aiutarmi a valorizzare il lavoro fatto. Ed eccomi approdata sulle sponde de I Dischi del Minollo, a cui ho messo in mano – ma non passivamente – tutta la fase successiva di promozione dell’album.

Qualche episodio che è rimasto nella memoria durante la lavorazione dell’album?

Ogni istante è ben stampato nella mia memoria, perché ho vissuto quel periodo con grandissima intensità emotiva. Un pomeriggio il mio produttore, Fabio, ed io stavamo registrando le percussioni di Pomegranate e ci trovavamo in grande difficoltà, perché stavamo cercando di riprodurre un pattern ritmico che nel mio demo avevo ottenuto in modo quasi casuale con dei particolari delay. In quel momento entrò Francesco Federici (nostro amico musicista, nonché uno dei fonici migliori di Perugia), per riprendere alcune attrezzature che aveva lasciato in studio; incuriosito dal nostro lavoro e vedendoci in difficoltà, ci chiese se poteva provare a suonare lui la parte: entrò in sala registrazione e riuscì in pochi minuti a fare ciò che noi stavamo inutilmente tentando di fare da ore. Sulla soglia della porta si girò e mi disse per scherzo che voleva essere citato nei credits. Io l’ho messo nei credits per davvero.

Se Proserpine fosse un concept-album su cosa sarebbe? … tolgo il fosse?

No, lasciamo il “fosse”… Non considero Proserpine un vero e proprio concept, sarebbe davvero pretenzioso. Del resto ogni mio album è generalmente monolitico in termini di contenuti e sonorità. Come già accennato prima, l’album parla di morte e rinascita, in molteplici accezioni e in termini fortemente personali; un viaggio introspettivo che forse invita l’ascoltatore a seguirmi – o gli impone di farlo –, con i propri pensieri e il proprio sentire.

C’è qualche pezzo che preferisci? Qualche pezzo del quale vai più fiera dell’intero disco? … quello più da live?

Amo tutti i brani allo stesso modo, sono tutti figli miei; detto ciò, credo che Pagan sia uno dei più riusciti, motivo per cui ne abbiamo fatto un “singolo”. Il brano riesce molto bene anche live, come del resto Anemones, l’altro singolo: quando mi è capitato di suonarlo ad alcuni concerti, ricordo la sensazione di sentire il pubblico ammutolire e partecipare profondamente e totalmente a ciò che stava ascoltando. The Dark Place è forse invece il vero “cuore” dell’album.

Come è stato produrre Proserpine? Chi più vicino dal punto di vista produttivo?

È stata una stupenda, indimenticabile avventura e Fabio Ripanucci è stato un ottimo compagno di viaggio. C’è stata davvero una condivisione totale, che ha portato all’instaurarsi anche di un rapporto personale molto profondo. Proserpine deve molto a Fabio, soprattutto in termini di sonorità. La mia esigenza primaria, quando lavoro con qualcuno, è quella di farmi comprendere, di far comprendere appieno quelli che sono i miei intenti e i miei obiettivi e Fabio è stato sempre un produttore attento e paziente, sebbene musicalmente io sia piuttosto lontana dai suoi gusti e dalle sue abitudini. Ha saputo entrare con grande sensibilità e delicatezza nel mio lavoro, riuscendo però ad apportarvi dei nuovi punti caratteriali, molto distinti. Il nostro affiatamento è cresciuto nel tempo, tant’è che alla fine non c’era nemmeno bisogno di discutere sul da farsi, ciascuno di noi sapeva esattamente cosa fare e cosa aspettarsi dall’altro.

Come è nata questa copertina? Uno scatto non nato a caso.

Era da tempo che sognavo di essere protagonista di un tableau-vivant e questa mi è sembrata l’occasione giusta per realizzare finalmente il mio desiderio. Sapevo che la persona migliore da contattare era Francesco Capponi, artista e fotografo Perugino che conoscevo – per fama – dai tempi dell’Accademia di Belle Arti, che abbiamo frequentato entrambi. La mia idea di realizzare una sorta di tableau-vivant della Proserpina di Rossetti è stata subito bene accolta e per l’occasione, Francesco ha scelto di utilizzare un autentico banco ottico vittoriano, proprio per dare all’immagine quella grana, quella distanza temporale che desideravo. Allestimmo una camera oscura improvvisata nel bagno e un set nel giardino di casa mia… Il resto lo vedete.

Come presenteresti dal vivo il disco?

I brani di Proserpine sono già stati molto suonati, prima ancora di essere registrati. Essendo stati composti essenzialmente sulla chitarra acustica, sono pezzi molto chitarristici – al contrario forse di come possono apparire a un primo ascolto dell’album – dunque si prestano molto bene ad essere semplicemente suonati chitarra e voce. Sul palco preferisco sempre essere da sola e, ad ogni modo, le varie restrizioni da Covid mi hanno impedito di coinvolgere altre persone per la preparazione del mio live. Ciò a cui non rinuncio mai sono le mie pedaliere, per potermi portare in giro il mio sound, che è qualcosa su cui lavoro molto e che caratterizza fortemente la mia musica. In questo caso, forse, mi porterò sul palco un computer e mi accompagnerò con un semplice sistema a sequenze, per non rinunciare ad alcuni arrangiamenti e soprattutto ai cori, ma su questo punto sono ancora indecisa; forse deciderò a seconda delle occasioni.

Come se la passa la musica indipendente, tra un lockdown e l’altro?

La musica indipendente se la passa piuttosto male da molto prima che i lockdown arrivassero a peggiorare ulteriormente la situazione. È chiaro che la chiusura prolungata di concerti ed eventi dal vivo è una catastrofe, sia in termini economici che sociali, perché non bisogna dimenticare che la musica necessita della sua socialità, che non può essere ridotta a una sua parodia mediatica-digitale. Il timore è che la situazione favorirà ancora una volta i grossi e manderà al macello i pesci piccoli, e parlo sia degli artisti che dei locali: qualora ci sarà il via alle riaperture, i locali dove si fa musica dal vivo che potranno rialzarsi e permettersi di rispettare le stringenti normative saranno ben pochi, i più grossi e quelli con le spalle più coperte; dunque ci sarà sempre meno spazio per gli artisti emergenti o meno conosciuti. È chiaro che assistiamo a un pazzesco proliferare di musica online, perché ovviamente tutto si sta riversando in quell’enorme contenitore, dove ciascuno ha ancora la possibilità di esprimersi. Devo dire però che sono sempre cauta nell’accogliere con entusiasmo questo tipo di “fertilità”: quando cresce di tutto, in genere crescono principalmente erbacce, che soffocano e rendono invisibili quei pochi, spasmodici fiori.

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Perché hai scelto il nome d'arte "Augustine"?

Anni fa lessi il saggio del filosofo dell’arte Georges Didi-Huberman intitolato L’invenzione dell’isteria: un libro che mi aprì molte porte. L’isteria mi interessava molto, in quanto “malattia del femminile”, essendo i miei lavori artistici sempre inscindibilmente legati al mio essere donna, con le sue complessità e problematicità. Nel saggio si parla soprattutto del legame tra questa paradossale condizione dell’essere tipicamente femminile e il suo rapporto con l’immagine (in quel caso specifico la fotografia dell’Ottocento): questo passaggio è cruciale e lo è anche nel mio lavoro, dal momento che mi servo sempre, di volta in volta, di una qualche immedesimazione con un personaggio femminile tratto dalla letteratura o dal mito, per poter portare l’autobiografia su un piano più assoluto, per poter essere soggetto e oggetto al tempo stesso. Augustine era appunto l’isterica protagonista del libro: scegliere il suo nome significava non soltanto assumere la condizione paradossale dell’isteria come paradigma del fare artistico, soprattutto in quanto legato all’essere donna, ma anche dichiarare apertamente un gioco di identificazioni.

Sei una polistrumentista, suoni parecchi strumenti. Qual è il primo a cui ti sei avvicinata e come hai evoluto la tua conoscenza tecnica musicale con altri strumenti?

Mi arrangio a suonare di tutto a seconda delle esigenze, è vero, nei miei album ho suonato quasi ogni strumento presente; ma ci tengo a dire che non mi ritengo una vera musicista, sono più che altro un’autodidatta, sempre pronta ad acquisire nuove capacità, con il solo scopo di assecondare le mie esigenze espressive. Il tutto avviene molto intuitivamente (fortunatamente posso contare su un ottimo orecchio). L’unico strumento per il quale prendevo lezioni da ragazza è la chitarra, ho iniziato a 14 anni. Se devo però dirvi quale sia il mio strumento, è senza dubbio la voce. Anche in questo caso non posso vantare dei veri e propri studi; tuttavia alla voce dedico tutta la mia esistenza. Considero la mia voce la mia anima; non è solo un mezzo espressivo, è una mia impronta sonora. Ogni mia composizione nasce dalla voce, e in questo campo sento di non avere alcun limite, o meglio: indago costantemente il limite, per superarlo e trovarne un altro. La ricerca della propria voce è la ricerca di sé, qualcosa senza fine, in continuo mutamento.

Nel tuo progetto "Proserpine" mi pare che hai concretizzato l'idea di creare un prodotto che sembra provenire da un altro tempo, ad iniziare dalla copertina. Parlaci un po' di come è nato questo album e di come è cambiato dalla sua idea iniziale alla versione pubblicata.

Credo che ogni mio prodotto artistico sembri provenire da un altrove spaziale e temporale (che non significa necessariamente dal passato, ma semplicemente una temporalità “altra”); è ciò che voglio, ma anche ciò che necessariamente ottengo. L’idea dell’album è nata quando ho iniziato a comporre quei brani e mi sono resa conto che erano tutti legati da un filo conduttore estremamente coerente, sia musicalmente che a livello di contenuti. Aleggiava ovunque un senso di reclusione, di intimità e condanna contemporaneamente. La figura di Proserpina si è affacciata quasi subito, soprattutto nella veste pittorica che conosco, il quadro di Dante Gabriel Rossetti, dove la dea è colta nell’atto di gettare uno sguardo verso una fenditura fugacemente apertasi dalle porte del palazzo dell’Ade. Proserpine è esattamente quello sguardo dall’interno-inferno verso l’esterno. Dapprima ho lavorato come sempre in completa autonomia, registrando i demo a casa; dopodiché sono entrata in studio, a “La Cura Dischi” di Perugia, dove ho affidato il mio materiale alla produzione di Fabio Ripanucci. È lì che sono avvenuti i cambiamenti rispetto ad un’idea iniziale: la mia pre-produzione era già molto dettagliata a livello di arrangiamenti, ma occorreva un’evoluzione nelle sonorità, possibile solamente coinvolgendo nel lavoro altre persone ed affidandosi ad un ambiente professionale. Se ripenso a come ho concepito inizialmente Proserpine, le differenze sono davvero poche: principalmente sonorità più asciutte e raffinate, qualcosa che non avrei comunque potuto immaginare prima di imbattermici. Ma questo, dopotutto, è ciò che accade in ogni lavoro.

Come è stato creare questo album in un periodo di pandemia mondiale?

C’è stata qualche scocciatura, naturalmente. Come dover interrompere il lavoro in studio durante il primo lockdown: eravamo già a buon punto, quando si è diffusa la prima ondata del virus. Questo ha comportato enormi rallentamenti (difficili da tollerare, per una persona impaziente come me). Non parliamo poi del fatto di dover rinunciare (almeno per ora) ai concerti; ma qui siamo già al “dopo”…

Non ho avuto modo di ascoltare il tuo album di esordio "Grief and Desire" del 2018. Ce ne puoi parlare, alla luce di questa tua nuova uscita?

Mi piace pensare a Grief and Desire come ad una sorta di diario musicale. È un lavoro complesso ed eterogeneo, dal carattere fortemente autobiografico. È stato interamente registrato in home recording, in totale autonomia. Questo può forse apparire come un “difetto” o forse indice di una certa acerbità: le sonorità, molto legate alla musica Wave e Dream Pop, hanno certamente risentito di questa solitudine. Ma d’altro canto, e con il senno di poi, non riesco ad immaginare questo album diversamente da come è: era giusto che fosse così rarefatto, così solitario.

La malinconia mi pare che faccia parte della tua musica, che ha certamente connotati dark. La scelta di questo stile è originata dal tuo carattere?

Ho un’indole malinconica, è vero, e la mia musica di conseguenza. Certa musica di matrice dark chiaramente mi offre sonorità in cui rispecchiarmi e le stesse sonorità penetrano per osmosi nella mia musica. Nessuno, credo, può prescindere, in quello che fa, da ciò che è. Di sicuro io non ne sono capace.

Perché hai sentito la necessità di collegarti alla mitologia con Proserpina, la regina degli Inferi? Cosa lega i vari brani?

Come vi raccontavo prima, in realtà il mito di Proserpina non è stato anteposto al mio lavoro in maniera programmatica; si è semplicemente affacciato da sé man mano che i brani prendevano forma nella loro totalità e nell’omogeneità dei loro contenuti. Il mito fa parte di un nostro inconscio collettivo, credo sia esso ad imporsi e non tanto noi a sceglierlo come specchio.

La fantasia, in un posto e in un tempo che rimane immortale è meglio dell'attualità?

L’attualità è imprescindibile, che lo si voglia o no, semplicemente perché è il nostro presente; non credo però che l’attualità debba essere anche il contenuto di un atto estetico, almeno non in quanto mera attualità: in quel caso si produce cronaca, non arte. Ogni prodotto artistico, sebbene generato dal suo tempo, ha la capacità di squarciare il tempo, di disegnare una temporalità altra, un altrove. In questo senso si può anche dire che, nel tempo, guadagni la sua “immortalità”. La fantasia è una categoria che mi appartiene ben poco; preferisco parlare, semmai, di immaginazione. Come la parola stessa dice, è impossibile immaginare qualcosa se non ci si affida ad essa. Ma si tratta di un mezzo, di nuovo, non di un contenuto; è uno dei tanti mezzi necessari (non l’unico) all’espressione artistica e non semplicemente un bel sogno in cui rifugiarsi. Tra l’altro, trovo che la mia musica tratti temi di estrema concretezza, per quanto fortemente personali. Nel farlo, però, ha bisogno di disegnare una realtà che sia – non alternativa, ma – parallela all’attualità.

Davvero etereo ed estatico il tuo video di Anemones, una apertura nel cielo nuvoloso ed oscuro degli altri brani. Ci racconti qualcosa della sua realizzazione?

Effettivamente Anemones all’interno dell’album rappresenta un momento di schiarita, un fugace raggio di sole, per quanto crepuscolare. Secondo il mito, gli anemoni nacquero dal sangue del morente Adone, amato da Proserpina. Da qui il significato simbolico attribuito ai fiori: “abbandono”. Di abbandono parla appunto il brano ed il video, di conseguenza, trasmette questa sensazione di grande solitudine. Insieme al regista, Francesco Biccheri, volevamo che io diventassi una creatura fuori-luogo, che vive la sua quotidianità domestica in un contesto straniante, pur nella sua bellezza naturalistica, quasi in prigioniera di una dimensione onirica, dell’attesa di qualcosa che non accade mai. L’attesa è dolce e velata di malinconia. Il temine “anemone”, derivante dal greco antico, significa “fiore del vento”, in riferimento alla sua natura effimera e l’effimero è senz’altro un altro elemento che abbiamo deciso di trasmettere nel video. I gesti sono naturali nella loro quotidianità, ma il fatto di essere compiuti in un quel contesto paesaggistico li rende vacui, vani. La giornata si apre e si chiude, dalla mattina alla sera, forse uguale alla precedente e alla successiva, ed io confesso i miei pensieri, attraverso il canto, il mio stesso amore, a null’altro che il vento.

Quali sono gli artisti che prediligi e quelli che ti hanno ispirato di più?

Il mio amore musicale più grande, come ho sempre confessato, va ai Cocteau Twins, soprattutto per tutto ciò che hanno realizzato nel periodo che precede gli anni ’90. Elizabeth Fraser vocalmente è il mio più grande riferimento. Non posso non citare i Dead Can Dance: l’influenza della loro musica è forse anche più evidente in un album oscuro e remoto, a tratti lisergico, come Proserpine. A proposito, parlando di influenze, posso certamente citare la PJ Harvey di album come White Chalk e Let England Shake, ma anche Agnes Obel; e Julianna Barwick, soprattutto per quanto riguarda le armonie vocali, un tratto che considero distintivo del mio modo di comporre. A livello di sonorità, si potrebbe anche parlare di Death in June, un ascolto che abbiamo spesso fatto il mio produttore ed io durante la lavorazione dell’album: credo che qualcosa del suo tocco “industrial” sia filtrato, per mano di Fabio, nella mia musica.

Segui la musica italiana?

Se parliamo di musica contemporanea main stream o di matrice “indie”, no e non certo per partito preso o snobismo. Fatico effettivamente a trovare spunti interessanti. Nell’underground ci sono però realtà musicali italiane di tutto rispetto; molte di queste trovano il loro pubblico migliore all’estero. Se vogliamo riferirci a qualche artista italiano del passato, l’unico che veramente amo è Fabrizio De André, perché trovo che sia il solo ad aver saputo utilizzare la nostra complessissima e ricchissima lingua in maniera davvero elevata, anche dal punto di vista canoro, riuscendo a creare una sorta di folk veramente italiano, che racchiude in sé tradizioni musicali e dialettali senza mai abbassarle a livello di folklore, e allo stesso tempo senza chiudersi alle influenze della musica estera. Un genio impareggiabile.

Come mai la scelta di comporre i testi in inglese? E' un dato di fatto che l'italiano aiuta e molti artisti della nostra penisola sono arrivati al successo solo dopo avere abbandonato la lingua anglosassone (Afterhours, The Zen Circus, ecc.)

Scrivere in inglese non è una scelta, ma una necessità artistica (io faccio tutto per necessità, piuttosto che per scelta). Dunque è chiaro che non sia dettata da una qualsivoglia strategia di mercato, ma piuttosto da profonde ragioni estetiche ed interiori. Non mi pongo il successo come un obiettivo e non credo debba esserlo; gli obiettivi sono altri e riguardano più che altro la costante crescita artistica. Il successo può essere un effetto collaterale, ovviamente gradito, ma anteporlo al resto, condizionando scelte estetiche e contenutistiche, non mi è mai sembrata una buona strategia. Tanto per cominciare, scrivo in inglese perché ho sempre principalmente ascoltato musica con testi in inglese, dunque è stato qualcosa di estremamente naturale fin dalla prima adolescenza; è chiaro che non mi accontento mai del mio livello di conoscenza della lingua e investo moltissimo nel suo studio, per esempio leggendo molto poesia e letteratura inglese… Inoltre, scrivere in una lingua che non è la mia funziona per me come una sorta di filtro, mi permette più facilmente di staccare il linguaggio dalla mera comunicazione ed elevarlo ad un livello di poesia, dove il suono ritrova tutto il suo mistero e apre la parola a sensi più profondi e più imprevisti rispetto a quello comune. Se fossi una poetessa, riuscirei probabilmente a fare ciò anche nella mia lingua, ma io sono una cantautrice e non mi trovo a che fare con endecasillabi, ma con strutture ritmiche brevi, derivanti dal rock e dal pop (quindi nate in paesi anglofoni), che molto poco si adattano alle parole italiane, composte solitamente da più di tre sillabe. Trovo grotteschi molti tentativi, tipici della musica italiana, di adattare l’italiano a quelle strutture ritmiche, obbligando a scegliere quelle poche parole di due o tre sillabe che la nostra complessissima lingua offre, con il risultato frequente di un terribile impoverimento lessicale e contenutistico. Forse è un mio limite trovare queste incoerenze. Certo è che il nostro è davvero uno strano paese: inneggiamo all’epoca globale e ancora il mercato musicale nazionale non si apre al cantato in inglese, rimanendo in questo senso invariato dagli anni ’60, quando si facevano le cover in stile RAI dei grandi successi esteri in italiano, spesso traviando ed “edulcorando” il significato originario dei brani… Ho sempre pensato che saper comporre in inglese sia un qualcosa in più e non un qualcosa in meno; e trovo che sarebbe preferibile per qualsiasi musicista guadagnarsi un pubblico internazionale, piuttosto che esclusivamente nazionale. Non mi pare bello porre dei confini linguistici in questo senso, soprattutto quando si continua a ripetere che l’arte non ha confini… La mia musica è rivolta ad ascoltatori di ogni nazionalità, questo è certo.

Oltre alla musica, sei appassionata anche di altre forme d'arte?

La mia formazione artistica è stata principalmente visiva, avendo studiato all’Accademia di Belle Arti; dunque la pittura e l’arte visiva in generale hanno occupato una fetta importantissima della mia vita e continuano a farlo: la realizzazione dei videoclip, per esempio, mi dà la possibilità di esprimermi anche in questo senso. Inoltre amo la lettura, come accennavo prima, in ogni sua forma, dalla saggistica alla poesia.

Ti ringraziamo del tempo dedicato. Vuoi aggiungere qualcosa?

Ne approfitto per fare io dei ringraziamenti: intanto a voi, che come tante altre redazioni mi avete dedicato tempo e spazio, accogliendo Proserpine con cura ed entusiasmo. E poi voglio ringraziare tutte le persone a me carissime che hanno reso questo lavoro possibile, da coloro che hanno attivamente partecipato alla realizzazione dell’album, a coloro che hanno seguito il tutto dall’esterno, non smettendo di starmi accanto e sostenermi. Proserpine è senz’altro un album che esprime solitudine, ma è stato un lavoro tutt’altro che solitario e la post-pubblicazione lo è ancora meno. Di questo sono grata e felicissima.

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Posso dirti subito che trovo qualcosa di orientale dentro le linee vocali di questo disco? “Pagan” su tutte naturalmente… è una mia impressione?
Hai ragione! In parte è una cosa decisamente voluta, come nel caso di “Pomegranate”: volevo che avesse una linea melodica con un tocco di mediorientale. Altre volte è forse una conseguenza indiretta di alcuni ascolti che hanno certamente influenzato la composizione dell’album, come ad esempio i Dead Can Dance (pensiamo ad album come “Into the Labyrinth”) oppure “My Life in the Bush of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne. Credo che a conferire l’impressione di “orientaleggiante” ad una melodia, siano soprattutto quei passaggi di semitono, molto frequenti nella mia musica in generale, qui decisamente dominanti. Volevo che questo album suonasse remoto, antico: e tali sono le sue linee vocali.

Questo mood assolutamente dark, quasi “industrial” se non fosse per la cadenza melanconica e l’aridità di suoni cadenzati invece con interessante parsimonia… da dove nasce?
Di nuovo, certamente dai miei ascolti, alcuni già citati, a cui potrei sicuramente aggiungere, per esempio, i primi Cocteau Twins. Quel tocco di “industrial” invece è certamente opera del produttore di questo album, Fabio Ripanucci; è un po’ la sua firma. Ci ha guidati, in questo, l’ascolto di “Death in June”. Il tratto malinconico è una costante delle mie composizioni, invece, (nonché del mio temperamento). Riguardo la parsimonia negli arrangiamenti, si tratta di una decisione unanime presa fin dalla fase di pre-produzione: sia Fabio che io volevamo un album senza fronzoli, che accogliesse solamente i suoni necessari. Inoltre era una mia esigenza lasciare ampio spazio ai cori, che sono forse i veri protagonisti, in termini di arrangiamento, di questo lavoro.

La mitologia greca come metafora della vita di oggi. Dove si ferma la prima per lasciar posto alla seconda?
Non ho questa visione “progressista” della storia dell’umanità, per cui il mito possa essere in qualche modo un glorioso materiale antico a nostra disposizione per rispecchiare le miserie del nostro presente. Il mito è fuori da ogni tempo, proprio perché parla delle nostre origini. E fuori da ogni tempo è l’arte in generale, sempre, perché è qualcosa di totalmente anacronistico, capace di aprire enormi squarci nella temporalità, di creare cortocircuiti spazio-temporali, enormi voragini del tempo. Non è mio interesse descrivere un qualsivoglia presente – che tra l’altro trovo piuttosto triste –, se non quello che ha a che fare con una mia profonda interiorità, ma anche questa è portata in una dimensione a-temporale, decontestualizzata, forse assolutizzata (ecco perché il mito si affaccia, senza che sia una programmatica scelta): l’Ade – o quel “dark place” (come l’ho nominato) – è quell’altrove, un luogo remoto nello spazio e nel tempo. Lì voglio stare con la mia musica.

Dall’home recording arrivi ad una produzione più completa, più ragionata… come ti ci sei trovata?
Era un passaggio obbligato, la mia stessa musica richiedeva questo “salto”. Per una persona come me, estremamente ostinata e indipendente, non è stato semplice condividere il lavoro con altre persone. Tanto più trattandosi di materiale estremamente intimo. È stato un processo di apertura graduale, ma anche di grande crescita. È chiaro che l’apporto che un’altra persona può dare ad un lavoro di questo tipo è grande e prezioso. Così è stato. Ma ho voluto comunque sempre tenere le redini e si è sempre lavorato su mie idee di arrangiamento, già ben chiare nella pre-produzione che avevo registrato da sola in home recording, di cui abbiamo conservato comunque diversi elementi. La sfida più grande affrontata in studio è stata proprio la ricerca del suono, l’allontanarmi da certe mie “sponde sicure”, per approdare a qualcosa che non avevo previsto e che è stato proprio il frutto di una condivisione.

E se ti chiedessi quanto ha messo piede Joni Mitchell in questo disco?
Devo dire che Joni Mitchell non ci ha messo piede per niente, non è tra i miei ascolti preferiti; del resto, credo ci sia ben poco di folk americano in questo album, sia come sonorità, che come concetto. La presenza di chitarre, per la maggior parte acustiche, non deve trarre in inganno. I miei riferimenti musicali sono altri e vengono da generi molto diversi. Nel mio Olimpo vocale siedono Elizabeth Fraser, Lisa Gerrard, BethGibbons, Julianna Barwick, Kate Bush, Annie Lennox, Siouxsie Sioux…

Bellissimo questo video di “Anemones”… ce lo racconti?
Grazie, con piacere! Voglio innanzitutto dire che è opera del regista Francesco Biccheri, con cui ho avuto il piacere di girare altri video. Mi piace pensare ad “Anemones” come ad uno sprazzo di luce – sebbene crepuscolare – all’interno di un album sostanzialmente oscuro. Come sappiamo, la figura di Proserpina è doppia, in quanto legata sia all’aldilà che alla vita terrena: la dea trascorreva metà dell’anno nell’Ade e l’altra metà (la bella stagione) sulla terra con la madre Cerere, dea della fertilità e delle messi. “Anemones” appartiene senz’altro a questa seconda stagione, una stagione di rinascita, se vogliamo leggere il mito – ed il mio album – in termini simbolici di morte e rinascita. Una rinascita velata di profonda malinconia. Secondo il mito, gli anemoni sono i fiori nati dal sangue del morente Adone, giovane di rara bellezza, amato da Proserpina (oltre che da Venere): da qui deriva il significato simbolico che il fiore ha acquisito nel tempo, “abbandono”. E di abbandono parla “Anemones”, di una solitudine completa, vissuta nella quotidianità, con dolcezza. Volevo essere nel video una creatura effimera, fuori luogo, una serena prigioniera di un altrove, una dimensione onirica che si fa domestica. La parola “anemone” deriva dal greco antico e significa “fiore del vento”, a descrivere la sua naturadelicata: al vento consegno le mie parole, la mia musica, i miei ricordi, i miei desideri… Il mio stesso amore.

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Circa tre anni fa Sara Baggini, in arte Augustine, pubblicava il suo esordio discografico “Grief and Desire”. Oggi ritroviamo la cantautrice grazie allo splendido “Prosperine” (I Dischi del Minollo), un viaggio nelle profondità dell’Ade che si sorregge su una raffinata colonna sonora in bilico tra neo folk, dream pop e dark wave…

Ciao Sara, o preferisci Augustine?
Ciao! Non ho preferenze, siamo la stessa persona; ma dal momento che si parla di me in quanto cantautrice, mi nomino come Augustine in questa sede.

Dove finisce Sara e dove inizia Augustine? Convivono pacificamente?
La coincidenza è totale. La musica – e l’arte in generale – sono da sempre per me una questione identitaria. Non solo mi rispecchio in ciò che faccio, ma SONO ciò che faccio. È chiaro che l’identificazione con un personaggio letterario – Augustine, l’isterica protagonista del saggio di Georges Didi-Huberman “L’invenzione dell’isteria”– è per me un filtro necessario per portarmi in una dimensione “altra”, parallela rispetto alla vita, dove il racconto auto-biografico diventa musica e il linguaggio cessa di essere comunicazione per cercare una sua dimensione poetica. Detto ciò, la convivenza con me stessa non è mai stata pacifica, ma questo è un discorso che qui non ci interessa…

Hai esordito con un album, “Grief and Desire”, che nella sua semplicità era comunque un’opera complessa, una sorta di zibaldone con finalità identitarie. Secondo te, aver mosso in modo così deciso i tuoi primi passi come Augustine nel mondo della musica, con il senno del poi, è stato un vantaggio o uno svantaggio?
Non faccio mai questo genere di bilanci, soprattutto perché ogni mia azione è dettata da necessità e non da strategie o obiettivi. Dunque non potevo fare altrimenti. Che poi “Grief and Desire”avesse i suoi limiti, lo sapevo in partenza e con il tempo ho avuto modo di capire molto di più. Ma in quel momento era esattamente ciò che andava fatto

A tre anni di distanza quanto è rimasto di quella identità di Augustine nel nuovo “Proserpine”?
Ho una personalità piuttosto monolitica, restia ai cambiamenti, non rinnego mai il mio passato o qualcosa fatto in passato. È rimasto tutto quanto, si sono solamente aggiunte delle cose: maggior consapevolezza, apertura, forse semplicità, ma non nel senso di “semplificazione”, persino la complessità rimane invariata. Ho trovato solo delle forme espressive più dirette, ma tutto ciò forse si riassume in un naturale percorso di maturazione artistica.

Hai dedicato l’album alla figura alla dea Proserpina e hai detto: “nasce da un’idea di inesorabilità, di reclusione, di auto-esilio; di vita vissuta osservando il mondo da dietro una finestra”. Decontestualizzando la tua affermazione, parrebbe il racconto di questi giorni di uno qualsiasi di noi: quanto ha influito il lockdown sulla genesi di “Proserpine”?
Per nulla! “Proserpine” è nato prima! Quando il Covid è arrivato in Italia, io ero al lavoro in studio, avevo già composto tutte le tracce e terminato la pre-produzione. Quando subentrò il primo lockdown stavamo registrando (fummo costretti ad interrompere momentaneamente il lavoro). “Proserpine”, ad ogni modo non ha a che fare con delle contingenze “esterne”; è tutto intro-flesso, interiorizzato. Non riguarda affatto l’hic et nunc né qualche condizione collettiva; i contenuti sono del tutto personali. Che, poi, l’ascoltatore riviva le sue esperienze di reclusione ascoltandolo, è un altro discorso, un’identificazione forse inevitabile in questo momento, ma la reclusione di “Proserpine”è qualcos’altro, rispetto a ciò che noi tutti abbiamo sperimentato nell’ultimo anno, qualcosa di molto profondo, di abissale. Mi è capitato di pensare che questo album sia stato un po’ preveggente e questo mi convince della sua buona riuscita: l’arte in qualche modo è sempre premonitrice.

Hai una passione per i miti classici e per la letteratura di autrici quali Virginia Woolf e Sylvia Plath, musicalmente sei attratta dal folk e dagli anni 80 (dark wave e dream pop): non salvi nulla della contemporaneità?
Certo che sì, salvo molte cose, fortunatamente l’umanità non ha mai smesso di produrre capolavori. Leggo anche autori contemporanei e musicalmente posso citare il mio amore per Agnes Obel, o Julianna Barwick, per esempio. Insisto comunque nell’affermare che l’arte è fuori dal tempo, è sempre anacronistica e non è una semplice espressione del suo tempo, è piuttosto una voragine del tempo, un corto circuito della temporalità. Io è lì che voglio stare. Altrimenti non si fa arte (o musica), ma cronaca, storiografia o futurismo.

Per quanto un artista oggi possa in modo volontario o involontario isolarsi dal resto del mondo, necessariamente deve confortarsi con questo. Per esempio, pubblicando dei dischi o dei video – tu hai lanciato i singoli “Pagan” ed “Anemones” tra gennaio e aprile – oppure rilasciando un’intervista come questa. Qual è il limite che separa il vero artista dal mercante?
Ho risposto in parte con le domande precedenti. L’artista ha le idee ed i mezzi espressivi necessari per dar loro vita. È ciò che fa. Risponde in primis ai bisogni imposti dal proprio lavoro. Il mercante è qualcuno che fa un mestiere perché si pone un obiettivo (in termini di visibilità o guadagno), ma non si pone il problema dei contenuti e spesso vende aria fritta, scatole vuote, anche se le vende benissimo. Non bisogna però certamente demonizzare tutto ciò che gira intorno al rendere fruibile il proprio lavoro. Anzi, un artista chiuso in se stesso, incapace di dare al proprio lavoro la visibilità che merita, non è un artista completo. C’è un modo, voglio dire, per essere un po’ “mercanti” senza tradire i propri contenuti e le proprie necessità artistiche.

Sin dalla copertina – opera di Francesco Capponi – ci metti la faccia, ma in realtà “Proserpine” non è il frutto di una persona sola: chi ha collaborato con te?
“Proserpine” ha avuto, come ogni mio lavoro, una gestazione solitaria, ma una realizzazione davvero condivisa con molti carissimi amici. In primis, al mio fianco c’è stato il suo produttore, Fabio Ripanucci, de La Cura Dischi: l’album, nella sua veste definitiva, deve a lui almeno quanto deve a me. Insieme a noi in studio c’era anche Daniele Rotella e il suo apporto tecnico (ma non solo) è stato fondamentale. E poi ho avuto l’occasione di ospitare in studio alcuni amici musicisti, perché dessero il loro contributo: il bassista Massimo “Marga” Margaritelli con il suo inconfondibile sound wave ed il batterista Niccolò Franchi, mio prezioso collaboratore da anni. Poi devo citare il regista dei miei video, Francesco Biccheri, che – insieme a Francesco Capponi – mi ha aiutato a dare a “Proserpine” un’adeguata veste visiva. Ho voluto poi coinvolgere i miei amici artisti visivi nei modi più svariati: Diletta Rondoni ha creato per me il melograno di ceramica che stringo in mano nella foto di copertina e ha messo a disposizione alcuni suoi lavori per il video di “Anemones”, Erica Landi mi ha aiutata a fabbricare i costumi che indosso nel video di “Pagan” ed Antonio Rossi ha realizzato per me le scenografie di entrambi i video, oltre ad avermi affiancato nella creazione dell’artwork del cd. In ultimo in ordine temporale, è al mio fianco in questa seconda fase del lavoro – quella di promozione, per l’appunto – Francesco Strino de I Dischi del Minollo.

Alla fine del tuo viaggio nell’oltretomba con “Proserpine”, sei riuscita a riveder le stelle?
Sì, certo! Ma le stelle non hanno mai smesso di essere presenti. È indubbio che “Proserpine” sia un album piuttosto cupo e che lo siano i suoi contenuti, le sue sonorità, le immagini che lo accompagnano… Ogni volta che porto a termine un lavoro mi immagino di essermi tuffata in un abisso, per poter riemergere con una perla in mano. E mi piace pensare all’abisso come ad un cielo al contrario. Il punto più basso ed il più alto coincidono sempre. La vita mi ha regalato di continuo esperienze di questa coesistenza. Mi piace stare lì, su quel filo sottile, in quell’equilibrio precario. Direi, anzi, che non so fare altrimenti.