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interviste ZIDIMA

Era da tempo che aspettavo questo momento. Sono tornati gli ZiDima. E anche questa volta la loro musica è una scossa che scuote la terra, le ossa, l’aria. Buona Sopravvivenza ha suonato a lungo nei cuori di molti, mostrando un’intimità che pochi hanno il coraggio di affrontare e esprimere. È stato un disco personale, dove ogni canzone era un morso nella carne, un tentativo disperato di sopravvivere in un ambiente che non si riconosce più. Solo agli alieni non è mai capitato.

Dopo cinque anni la band milanese sforna un album altrettanto impressionante. Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare è un nuovo capitolo. Le sonorità si sono fatte più aggressive, così come la voce che in diverse occasioni non si tira indietro e urla con tutta se stessa. Vale, la canzone che apre le danze, esplode senza preavviso. Un po’ come la vita.

Da un primo ascolto si capisce che qualcosa è cambiato. Non solo dal lato umano, ma anche sotto l’aspetto umano. Gli ZiDima sono cresciuti e con loro anche la musica, la necessità di fare musica. E insieme anche i rapporti. Questo disco è fatto di persone e delle loro vite, dei loro episodi quotidiani, nella calma e nella guerra. Questo disco è fatto di personaggi comuni, di eroi sconosciuti che in qualche modo hanno ispirato qualche verso. E camminano per le strade ignari di aver cambiato la vita a qualcuno, nel loro piccolo.

Manuel Cristiano Rastaldi canta e scrive i testi. Mi ha raccontato di questo nuovo disco che si è fatto largo in un periodo strano della vita, dove le certezze sono venute a mancare sotto diversi punti di vista. E forse è proprio lì che si scrivono nuove parole, che prendono forma nuove immagini e si ascoltano quelle storie che sono in grado di ispirarne di altre. Come è successo per questo album.

Il 10 ottobre è uscito il vostro nuovo disco, dal titolo Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare. Esce in un periodo storico molto difficile, incerto. Cosa vi ha dato la forza di scrivere e pubblicare questo album? Il periodo è davvero critico, ma l’emergenza Covid alla fine non credo abbia influito così tanto sull’uscita del nostro disco. Abbiamo iniziato le registrazioni a luglio 2019 al Trai Studio di Inzago (MI) e poi ci siamo presi tutto il tempo necessario (che per noi vuol dire sempre almeno 6 mesi) per curare nei dettagli il vestito delle nuove canzoni, dalle possibili collaborazioni al mixaggio, dal mastering alla ricerca delle illustrazioni per la copertina fino alla ricerca delle etichette per la stampa in vinile. In pratica durante il lockdown eravamo ancora concentrati su tutti questi aspetti. Se pensi a tutte le band che a febbraio/marzo avevano un disco fuori con live programmati a noi è andata decisamente meglio. Certo qualche momento di sconforto e un po’ di amarezza c’è stata, ma alla fine si è trattato solo di posticipare di qualche mese l’uscita e la data di presentazione dal vivo. Tra l’altro abbiamo sfruttato il periodo estivo anche per pensare e realizzare un video. Insomma, il disco è uscito quando tutto era davvero pronto, indipendentemente da questa grave epidemia che temo avrà ancora ulteriori effetti negativi. Su cosa ci abbia dato la forza di scrivere un nuovo disco il discorso è invece più lungo. Il precedente, Buona Sopravvivenza, è datato 2015, e per 2 anni l’abbiamo portato in giro parecchio, facendo più di 40 concerti. Che è una cosa assolutamente divertente e gratificante, soprattutto se hai 40 e più anni, ma che alla fine un po’ ti consuma, soprattutto sei hai 40 anni e più anni. O almeno io mi sono sentito così. Ricordo che nella primavera del 2017 siamo andato a Torino per festeggiare il compleanno dei Dischi del Minollo, una delle etichette che ci aveva aiutato con Buona Sopravvivenza, e io quella sera avevo confidato a quasi tutti i presenti che quel concerto sarebbe stato probabilmente il mio ultimo live con ZiDima. Non riuscivamo più a vederci e si provava pochissimo, in una sala prove a pagamento in cui finivamo il sabato o la domenica mattina, per diversi motivi personali e anche perché il centro sociale in cui abbiamo allestito la nostra sala prove era sotto sgombero. Un periodo di negatività e passività che coinvolgeva anche altri aspetti della mia vita, a partire dall’ambiente di lavoro (che poi per fortuna ho cambiato). Però ero assolutamente contento e soddisfatto della mia avventura con ZiDima. Buona Sopravvivenza era il disco che volevo fare e che mi rappresentava completamente, l’avevamo suonato tanto in giro e sempre con una passione devastante, mi sembrava una chiusura perfetta di una fase davvero emozionante della mia vita. Ho questa immagine, di noi 4 che riusciamo finalmente a vederci una sera per parlare del “futuro del gruppo” e ci diamo appuntamento davanti a Macao. Io arrivo all’appuntamento tranquillissimo, consapevole che non ci sarebbe stato molto da dire, bisognava solo trovare un modo elegante per salutarsi. E non ero neanche così demoralizzato. La fine della band in passato sarebbe stata una cosa devastante per me, ma in quel periodo me ne ero fatto una ragione. In pratica io sono pronto a dir loro “Dai, è stato bello, abbiamo fatto il massimo di quello che abbiamo potuto fare, però capisco che così non si può pensare di andare avanti quindi se vogliamo mollare va bene, nessun dramma”. E invece a sorpresa loro non avevano alcuna intenzione di smettere. Tutt’altro. Franq si era detto pronto a registrare le sue parti di batteria da casa, una volta che gli avessimo mandato le registrazioni delle prove. E così è stato. Nelle settimane successive noi ci trovavamo a ranghi ridotti in sala prove, lui nel suo box si ascoltava le prove e registrava le parti di batteria. Forse il nuovo disco è nato lì, quella sera davanti a Macao. Anche se poi di quelle prime bozze di canzoni io non volevo tenere quasi nulla, perché non riuscivo a scrivere nemmeno un testo decente. Invece anche qui hanno avuto ragione loro e la loro tenacia, perché quelli erano già i germogli delle canzoni di questo nuovo disco. Comunque l’episodio di Torino l’ho ricordato a Cosimo e Franq questa estate nel momento in cui abbiamo avuto in mano i vinili del nuovo disco. Eravamo tutti ancora un po’ stupiti ed emozionati. Di averlo fatto, davvero, un altro album.

Sette storie, sette personaggi, più uno. Cosa hanno rappresentato per voi questi personaggi e le loro vicende? La decisione di raccontare queste storie e soprattutto di nominare le canzoni con i nomi dei personaggi è stata casuale e non facile, nel senso che mi sono dovuto battere ferocemente ed arrivare anche a qualche compromesso con il resto della band. In pratica quando abbiamo ripreso a provare con regolarità, eravamo già tornati nella nostra sala prove, all’interno del Foa Boccaccio di Monza. Dico sempre che il Boccaccio è un po’ il nostro luogo del cuore, tanto che sulla porta della sala anni fa ho scritto “tana ZiDima”. Avevamo questi pezzi sopravvissuti a quei mesi critici, su cui stavamo lavorando seriamente, alcuni avevano i testi già ben definiti, altri assolutamente provvisori, con parecchi buchi. Come spesso capita quando proviamo in Boccaccio, qualcuno dei ragazzi del centro sociale viene a sentirci, o passa dentro 5 minuti anche solo per salutare. Tra i visitatori più assidui c’è Bruz. Visto che oltre ai testi, anche i titoli erano provvisori, una sera gli chiedo: ”Bruz dimmi un titolo per questa canzone, non so un nome di persona, con una storia dietro, ma che sia una storia vera Bruz!”. E lui mi racconta di Zita, questa ragazza che aveva incontrato durante un festival in Boccaccio. Da lì mi si è accesa la lampadina: intitolare le canzoni con i nomi dei loro protagonisti, come se fossero dei ritratti. Paolo e Rocco c’erano già (Paolo e Rocco per me ci sono e ci saranno sempre), così come Roby (che aveva come titolo “Il popolo ha fame”, il testo l’ho scritto durante una coda in tangenziale dopo che Roby mi aveva mandato il giro di chitarra nato mentre provava il nuovo pedale per i loop). “Arrivederci.amore.ciao” è diventata Vale, la combattiva più bella che abbia mai conosciuto, “Una crepa” è diventata Anna K. visto che parte del testo è tratta da un pezzo dei The Death of Anna Karina, Chiara aveva già la sua canzone così come Emme (più che una canzone però “Emme” è un’invettiva, uno sfogo di bile), e appunto grazie a Bruz un pezzo che si chiamava qualcosa come “Solo nero” è diventato Zita. In pratica noi stavamo già raccontando queste storie, senza averlo deciso a tavolino. E Bruz ci ha semplicemente aperto gli occhi e indicato la strada. Comunque Zita è stato l’unico testo che ho dovuto scrivere da capo dopo che siamo entrati in quest’ottica. Sono storie di persone vere, con cui in qualche modo siamo entrati in contatto, direttamente o indirettamente, che mi avevano colpito per le loro scelte, spesso estreme, coraggiose, liberatorie.

La “crepa in fondo al mare” che citate è naturale o si è formata a seguito di qualche evento particolare? Dopo aver cambiato i titoli delle canzoni (a poche settimane dall’inizio delle registrazioni), non ti dico come gli altri zidimi abbiamo reagito alla mia proposta di intitolare il disco Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare. Era ovviamente troppo lungo ed eccessivo per tutti. Ma alla fine ce l’ho fatta. Ho portato diversi esempi di dischi bellissimi che avevano titoli lunghissimi (penso a Stormo e Marnero ad esempio), e soprattutto mi son dovuto arrendere quasi subito nella battaglia per la scelta del primo pezzo della tracklist. Comunque: la crepa in fondo al mare così come il resto della frase del titolo sono tratti dal testo di Anna K., uno dei primissimi pezzi venuti alla luce. Mi piaceva l’immagine di questo abbraccio sfacciato e manifesto da contrapporre a ogni avversità (nel 2010 ero rimasto colpito da un’illustrazione che raffigurava i ragazzi abbracciati sul tetto di un centro sociale milanese – la Bottiglieria Occupata – durante uno sgombero, probabilmente la suggestione arriva da lì). E mi piaceva che questa contrapposizione sottolineasse anche una distanza. Quindi l’abbraccio è collocato nella profondità del mare, anzi in una crepa in fondo al mare, in modo che rappresenti anche una minaccia. Mi sembrava una descrizione perfetta del momento che come gruppo stavamo passando. Distanti, ma sempre ostinati e minacciosi. Poi crepe, squarci e segni simili li ho citati spesso anche nei dischi precedenti, forse pure troppo.

Avete dedicato l’album a “chi continua a sentirsi vivo e pericoloso”. Oggi si riesce ancora essere pericolosi in modo ostinato e libero? Personalmente poche altre cose mi hanno fatto sentire “vivo e pericoloso” come suonare per 18 anni con questa band. Poi ognuno ha il proprio concetto di pericolosità. Mi sembra però abbastanza evidente che oggi si tenda a definire pericolosi persone e atteggiamenti che semplicemente non sono in linea con questa imperante idea di omologazione, spietata e bugiarda e terribilmente noiosa. Ho sempre trovato più stimolante confrontarmi con chi ha una visione della vita slegata da troppi vincoli e obblighi e doveri, piuttosto che con quelli per cui l’unico obiettivo è il compromesso e il quieto vivere. Vivi, ostinati, bellissimi e pericolosi sono ad esempio i ragazzi e le ragazze del centro sociale che frequentiamo e che oggi si stanno battendo contro una nuova minaccia di sgombero, vive e pericolose sono certe canzoni che quando le senti tremi e ti vorresti strappare la pelle per vedere il segno che ti hanno lasciato. Quindi la risposta è sì, si riesce ancora a essere pericolosi in modo ostinato e libero.

Citando un verso di una vostra canzone, di cosa ha fame il popolo? Con “Il popolo ha fame” cito la celebre frase attribuita alla regina Maria Antonietta (“Se il popolo ha fame, che mangi le brioches!”, che poi è un falso storico, ho approfondito) proprio perché volevo riprendere ed enfatizzare un riferimento a un momento storico in cui le rivoluzioni si facevano per davvero e non si annunciavano sui social. È una frase che avevamo anche ipotizzato come titolo del disco, legandola però a tutt’altro discorso, ovvero a questi sette personaggi affamati di vita. Ma visto l’utilizzo che si è fatto in questi anni della parola popolo, non volevamo che nemmeno per un secondo si potesse percepire come un eventuale riferimento al populismo attuale. Quindi e per fortuna abbiamo cambiato idea, anche perché il titolo che poi abbiamo scelto è molto più rappresentativo oltre che molto molto più bello.

Personalmente, qual è la canzone del disco a cui tieni di più? Sono due e per motivi diversi, anche se in effetti sono i due brani meno irruenti, più “malinconici”: Roby perché c’è dietro una storia di 18 anni, fatta anche di silenzi, incomprensioni, differenze di vedute sfociate pure in qualche calcio sulle pareti della sala prove, ma anche indimenticabili pacificazioni improvvise sul palco e soprattutto quintali di complicità. L’altra è Paolo e Rocco perché coinvolge due persone a me molto care delle cui vicende personali preferisco non aggiungere nulla a quello che già ho raccontato nel
testo. Questa la scelgo anche per i cori di Cosimo che quando l’abbiamo fatta live in un momento di estasi mi sembrava di essere a un concerto dei Fine Before You Came.

Avete parlato di voi, avete parlato di altri. Forse è un po’ presto, ma di cosa vorranno raccontare gli ZiDima in futuro? Auguriamoci di raccontare e di vivere momenti di totale serenità. Dopo tutto credo sia questo il fine che segue ogni persona, anche perché l’odio e la rabbia richiedono un tale sforzo e consumo di energie che bisogna stare attenti a non sprecarli, specie verso chi non si merita proprio nulla. Poi chissà, magari tra 5 anni saremo ancora più incattiviti di oggi e faremo un disco black metal.

Le sonorità e i testi di questo progetto sono molto maturi. Siete riusciti a dare forma a storie molto vicine all’ascoltatore, come se fosse quotidianità. Allo stesso tempo avete “sperimentato” con i suoni, esplorando nuove aree rispetto ai lavori precedenti. Buona Sopravvivenza è stato un disco che ho amato profondamente. In cosa vi sentite diversi, musicalmente e personalmente, da quell’album? Sì anche nelle prime recensioni è venuto fuori questo aspetto, che ci si identifica con facilità in queste storie. A noi fa ovviamente piacere, vuol dire che è stata capita la nostra intenzione di raccontare vicende reali, quotidiane, in cui emergono difficoltà che ognuno può avere affrontato nella propria vita. Anche se poi si tenta sempre di nascondere le criticità, le piccole e grandi tragedie in cui tutti incappiamo. Per quanto riguarda i testi ho cercato di evitare troppi riferimenti personali. Rispetto a Buona Sopravvivenza questo è un disco decisamente meno autobiografico. E il lavoro sui suoni e sugli arrangiamenti è stato più lungo e ricercato. Anche se le canzoni nascono sempre da improvvisazioni che poi sviluppiamo insieme, già nelle prime fasi abbiamo cercato percorsi diversi o comunque meno prevedibili per arrivare a quei momenti di esplosione che da sempre caratterizzano la nostra musica. Ci sono parti più articolate, con stacchi e soluzioni che il mio amico Paolo ha definito “anche un po’ azzardati”. Soprattutto ci sono i cori urlati che Cosimo fa sempre durante i concerti, in maniera più istintiva che ragionata, e che abbiamo voluto assolutamente inserire nelle registrazioni. Perché volevamo che il disco suonasse come un nostro live, con tutta l’enfasi, l’emotività e la drammaticità che emerge quando siamo su un palco. Poi c’è il capitolo collaborazioni. In Chiara ci sono i cori di Ale dei Selva che era passato per caso in studio mentre stavamo registrando, e che abbiamo coinvolto immediatamente, lì sul posto, e il violino di Raffaele Terlizzi, che è stato agganciato da Franq e che si è rivelato una graditissima sorpresa. In Roby pensavamo da subito che ci sarebbe stata bene una tromba, e anche qui Emidio Bernardone ci ha regalato una parte davvero suggestiva. Le parti di synth le ha suonate Franq, come ogni tanto avveniva in sala prove. C’è quindi stato tutto un discorso più mirato su arrangiamenti e decorazioni dei pezzi che invece era totalmente assente nel disco precedente: Buona Sopravvivenza aveva addosso un’urgenza scalpitante, è molto più diretto, crudo direi.

Questa ricerca dei suoni è avvenuta in maniera naturale o avete intenzionalmente ricercato le sonorità presenti nel disco? Qui lascio la risposta a Franq, che nella vita oltre ad essere il batterista di ZiDima fa il fonico, e si è occupato di curare l’editing e il mixaggio degli ultimi 2 dischi (l’ultimo insieme a Fabio Intraina del Trai Studio di Inzago). Io ti posso solo dire che a livello di sonorità generale abbiamo preferito tenere un po’ più dentro la voce per dare maggiore risalto alle chitarre, che suonano sfacciate e prepotenti, assolutamente in primo piano, come non si sentiva da un po’ di tempo. Franq: Riguardo alle sonorità dell’ultimo album, non credo ci siamo scostati molto dal precedente, ma ci sono state alcune novità. Il trio batteria basso e chitarra rimane una costante, anche se in questo lavoro abbiamo cercato di estremizzare e creare maggiore differenza tra i momenti di quiete e le parti più “furiose”, è stata una precisa volontà
condivisa. La struttura dei brani è in media più complessa se paragonata all’album precedente, ma questa è stato un risvolto non ponderato, una naturale evoluzione che riprende per certi versi la strada aperta dal brano Buona Sopravvivenza, ultima traccia del precedente lavoro. Il desiderio di inserire degli strumenti diversi dal trio di base è nato quando i brani hanno preso una forma e una struttura più definita. Sono scaturite quindi le parti di synth che troviamo in alcune tracce e i contributi decisivi di Emidio Bernardone alla tromba su Roby e di Raffaele Terlizzi al violino su Chiara. Insieme a loro dobbiamo ringraziare anche Fabio Intraina per il fondamentale apporto in fase di registrazione e di mix.

Prima dell’uscita del disco avete pubblicato un video bellissimo. Ne avete altri in programma? Siamo così innamorati del video di Vale (ideato, interpretato e realizzato con i ragazzi e le ragazze del Foa Boccaccio) che oggi non pensiamo ad altri possibili video. Con questo videoclip volevamo ringraziare e celebrare a dovere questi meravigliosi combattenti moderni che ci hanno accolto come band e soprattutto come persone circa 10 anni fa e che oggi si battono di fronte a una nuova minaccia di sgombero. Mi porto dietro solo ricordi preziosi legati al Boccaccio e a quelle 3 notti di luglio in cui sono state girate le diverse parti, con una trentina di persone coinvolte, da chi tagliava la legna per i bracieri, alle comparse, ai performer, ai truccatori, a chi aiutava durante le riprese con un megafono, a chi spingeva un carrello o teneva in mano un faro. Ancora mi emoziono se penso a questa clamorosa testimonianza di affetto che ci è arrivata addosso. Poi Paolo (il regista, che ha concepito il video centrando perfettamente le tematiche del brano) ha fatto un lavoro incredibile sia per la qualità delle riprese che in fase di montaggio. Per tutti noi è stata un’esperienza veramente intensa e avremo sempre un’enorme riconoscenza verso questi ragazzi.

Il periodo che stiamo vivendo è duro per molti settori, musica compresa. Tra le misure di sicurezza e la velocità con cui si ascoltano e scoprono nuove band, come vedi il futuro della scena musicale indipendente? Sulla criticità del momento come ti dicevo prima siamo tutti molto preoccupati. Ma la nostra preoccupazione come band è niente in confronto al dramma di chi ha perso un posto di lavoro o peggio un amico o un familiare. Cerchiamo ovviamente di vedere come evolverà la situazione, se ci saranno o meno opportunità per fare altri concerti, e in che modo. Ci adegueremo senza problemi a suonare davanti a un pubblico limitato o mascherato, in orari magari insoliti. Vediamo. Sul futuro della cosiddetta scena indipendente non saprei davvero cosa rispondere. C’è stato questo clamore indotto dalle major verso pseudo cantastorie ruffiani e poppeggianti che a mio giudizio non hanno nulla da dire né da spartire con quella che una volta era definita “la scena indie” in Italia. Per il resto noi continuiamo a trovarci da favola in questi contesti punk/hardcore/diy in cui ci siamo ritrovati con il tour precedente. Lì abbiamo trovato tantissima curiosità, attenzione e sincero calore verso la nostra proposta, che forse non è nemmeno così tanto “estrema”. Anche se ricordo un paio di pogate con i minorenni con le creste durante i nostri live che sono una delle cose più divertenti fatte nella mia vita. Quindi al di là delle definizioni di genere e degli steccati, ognuno si faccia male come preferisce. Io le nuove band le continuo a scoprire dal vivo, ai concerti nei centri sociali e nei piccoli club, non grazie a una diretta Instagram o a 18 videoclip con tette e culi di fuori su YouTube. Però mi piace Salmo, volevo scriverlo per non sembrare troppo
passatista.

Molte realtà indipendenti hanno contribuito alla realizzazione del vostro progetto. Mi capita, purtroppo, di vederne sempre meno. Che succederà a questi tesori del mondo musicale? Con questo album siamo riusciti a coinvolgere 8 etichette: a partire da I Dischi del Minollo (da Pescara) e NelMioNome (da Milano) che si erano occupati già del disco precedente, poi Gasterecords (da Brescia) che ci puntava da tempo ed è stata la prima a cui abbiamo inviato i brani mixati, e Brigante Records che ci aveva chiamato per un concerto nel cuneese. Poi altre 4 etichette che non conoscevamo direttamente ma che per affinità abbiamo contattato per capire se erano interessate alla coproduzione della stampa in vinile: le siciliane Fresh Outbreak Records e Boned Factory, In Circle Records (da Verona), True Bypass (dalla Calabria). Sono tutte piccole e cocciute realtà, portate avanti con grande passione nonostante mille difficoltà, che hanno dato un contributo prezioso non solo a livello economico ma soprattutto umano. Con molti di loro stiamo diventando amici, e speriamo ci sia la possibilità di ritrovarsi tutti vicini a un palco. In ogni caso seguendo i loro consigli abbiamo deciso di dedicare maggiore attenzione alla fase della promozione, mantenendo comunque sempre la massima libertà nelle scelte. Ne è venuto fuori un bel lavoro di gruppo, e i risultati iniziano a vedersi, il disco sta girando bene. Ma la cosa più importante è che, come successo in passato, grazie alle etichette poi nascono festival, serate, incroci con altre band di cui spesso ci innamoriamo.

Ma alla fine riusciremo ad abbracciarci un giorno? Sicuramente Yuri. Ci eravamo incrociati grazie a una tua bellissima recensione di Buona Sopravvivenza, in cui avevi scritto addirittura che “Ogni canzone è un punto di sutura”. Wow, lo ricordo sempre come il complimento più bello che abbiamo mai ricevuto. Non ricordo neanche se eravamo stati noi a cercarti e in che modo ti fosse arrivata la nostra musica. In ogni caso grazie per aver soddisfatto il mio ego con quelle tue parole quella volta e adesso con questa infinita intervista. Ci si trova sicuramente in futuro.

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'Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare'. Credo che non ci sia titolo più adatto per sintetizzare la voglia e la ricerca di un contatto viscerale e passionale in questo periodo di snervante difficoltà, oltre che sanitaria, soprattutto emotiva. Su uno sfondo rosso sangue, una pennellata nera evidenzia un abbraccio che, in fondo, è tutto ciò di cui sentiamo sempre il bisogno, senza girarci troppo intorno. E' costruita così la copertina del nuovo album che, intitolato con la frase di apertura, simboleggia il ritorno discografico dei lombardi ZiDima. Il racconto di storie di vite vissute che fanno capo a determinati personaggi che sono ruotati nel contesto della band, rappresentandone la vera anima. Il tutto mantenendo una dimensione underground nella quale la band ci sguazza. Non potevamo, quindi, non parlare con la band al completo di tutto ciò che ruota attorno alle loro di vite, piene di coerenze.

 

Ciao ragazzi, e benvenuti su Hardsounds.it. Anche voi, come molte altre band italiane ed estere, avete affrontato il coraggio di pubblicare un disco nel bel mezzo di una situazione sociale piuttosto complicata. Come è stato per voi lavorare in queste condizioni, e che sensazioni avete avuto quando avete visto il prodotto finito? Manuel Cristiano Rastaldi (voce e parole): Ciao Raffaele, ben ritrovato. Quando abbiamo avuto in mano i vinili questa estate eravamo sinceramente emozionati, non tanto per avere affrontato o superato le complicazioni dovute a questa epidemia, quanto perché c'è stata una fase nelle recente storia della band in cui eravamo lontanissimi anche solo dall’idea di farlo un altro disco. Quindi per quanto ci riguarda nessun atto di coraggio: l'album è uscito con i nostri (lunghi) tempi e indipendentemente dalla situazione legata al Covid. Semplicemente quando avevamo tutto pronto e ben definito, video compreso, l’abbiamo pubblicato. Certo, il non poterlo portare a spasso sui palchi in questi mesi è difficile, ma sappiamo che quando si tornerà a una situazione di normalità o quasi, troveremo chi ci aspetta e ci saprà aspettare. 

 

Francesco Borrelli (batteria, synth): Piuttosto abbiamo avuto la fortuna di poter finire il disco prima che la situazione scoppiasse. Nel primo lockdown è stato masterizzato e speravamo di farlo uscire quando avremmo potuto portarlo dal vivo. Quando è stato stampato ovviamente eravamo molto felici, e non vedevamo l’ora di portarlo in giro. Abbiamo sperato contro tutti i pronostici che non ci sarebbe stata un’altra ondata. Purtroppo sappiamo com'è andata, non è stato possibile programmare un tour, ma ci siamo accontentati di poterlo presentare dal vivo in Boccaccio, come volevamo. E ora non vediamo l'ora che la situazione si sblocchi.

 

Rispetto ai due dischi precedenti, ‘Cobardes’ e ‘Buona Sopravvivenza’, questa volta avete optato per un titolo più complesso, ‘Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare’. Questo lungo titolo è stato frutto di un vostro ponderato ragionamento? Che origini ha questa frase? Manuel: Mi piaceva l'idea di un titolo molto lungo come avevano fatto altre band italiane con cui ci sentiamo affini (ad esempio Marnero o Storm{o}) e dopo qualche perplessità sono riuscito a convincere gli altri. La frase è tratta dall’incipit di “Anna K.”, una delle prime canzoni su cui abbiamo lavorato, che dice: “Di tutto quello che è stato o non è stato dato / di questa vita passata aspettando una tregua/ di te che hai solo un ricordo e su ci scrivi tempesta / del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare”. Mi sembrava molto rappresentativa, anche perché descrive la fase che stavamo attraversando come gruppo. Peraltro in quel brano c'è anche una significativa parte di testo scritta da Giulio Bursi e tratta da “Così che non potranno più prenderci” dei The Death Of Anna Karina, altra band che ho amato visceralmente. Quindi sì, è un titolo più complesso ed estremamente lungo, forse pure un pò pretenzioso, e con più riferimenti e piccole citazioni, non ultima quella ai titoli dei film di Lina Wertmüller. 

 

Franq: Il titolo è complesso forse perché riflette la complessità del momento, e non mi riferisco solo alla pandemia globale, ma all'evoluzione della globalizzazione che continua a manifestare i suoi effetti. Come riflesso alle aperture che offre un mondo globalizzato e connesso si sviluppano nuove paure e nuovi modi di comunicare e relazionarsi. Mentre dovremmo sentirci più uniti in un mondo globale appunto, molti ne vengono sopraffatti e quindi nasce il bisogno di chiudersi nella nostra piccola cerchia, cercando di aggrapparsi alle nostre vecchie certezze, alziamo muri, difendiamo i confini e alla fine ci sentiamo più lontani di prima. Forse più vicini in una realtà virtuale, lontana e mediata dai social, che in quella fisica e prossima.

 

Roberto Magnaghi (chitarra): Eh sì. Come dice Manuel, quando si profilò per la prima volta il titolo, la mente andò subito a Lina Wertmüller ed ai suoi “infiniti” titoli. E più il titolo si affermava tra i potenziali concorrenti (come sempre la scelta era tra alcune opzioni), più ci convincevamo che questo era esattamente il titolo giusto per questo disco. I brani, lontani da “semplici” canzoni, si allineano perfettamente con la loro memoria, le complessità, le crepe e le tempeste che suoniamo e cantiamo, in questo mare.

 

La vostra formula, anche in questo nuovo disco, sembra essere ancora la medesima: la proposizione di un noise alternativo che negli anni passati in Italia ha lasciato un segno. Il modo in cui lo fate penso sia ancora espressivo ed efficace. Da dove nasce questa vostra ispirazione e quali sono, secondo voi, i veri punti di forza di questo sound? Franq: Da quando sono nella band, la nostra musica è sempre stata molto istintiva. Tutti i pezzi sono nati e cresciuti in sala prove, fatta eccezione per qualche sovraincisione successiva. Questo ci ha permesso di fondere in maniera molto naturale tutte le influenze individuali, dall'indie rock e post rock degli anni 90, dal noise rock e rock alternativo degli anni 2000, fino al punk e all’hardcore più estremi. Forse è proprio questa miscela fatta di noise, declamazioni poetiche e ritmiche dalle dinamiche molto ampie, che vanno dalla ballad al pestone più serrato, e che permette di muoverci in uno spettro molto ampio di emozioni, a rappresentare il punto di forza del nostro suono.

 

Roby: Sì è vero, la formula è la medesima. Ci siamo molto interrogati su come e se evolvere e cambiare. Ogni gruppo, ogni forma musicale, ogni forma d’arte ha dentro di sé spesso anche i “germi” della evoluzione ed innovazione. Forse questo era il momento, invece, di ribadire alcune certezze, alcuni canoni che pensiamo possano essere più efficaci attualmente per trasmettere e comunicare a chi ci ascolta in modo genuino e senza sovrastrutture. Una musica diretta che ci auguriamo colpisca al cuore, cervello e stomaco come, mentre la eseguiamo, succede a noi.

 

Le canzoni del nuovo album si incentrano su sette (più uno) personaggi, che si suppone abbiano avuto un'influenza particolare sul vostro vissuto. Cosa rappresentano principalmente questi personaggi? Manuel: Rispetto ai due dischi precedenti, questo è quello in cui i testi hanno meno riferimenti personali. Anzi, si parte da un punto di vista completamente opposto: abbiamo infatti spostato l'attenzione dalle nostre inquietudini quotidiane a quelle di alcune persone con cui siamo entrati in contatto, raccontando quindi le loro storie. Sono storie reali che ci hanno colpito per le scelte che portano addosso, spesso estreme e liberatorie, e per il senso di rivalsa finale che ne emerge. Poi si è deciso, anche grazie ad input arrivato un pò per caso, di intitolare le canzoni con i nomi di questi personaggi, come se fossero dei ritratti. Essendo alcuni di loro amici stretti, il legame e l’empatia con queste vicende sono per noi quindi naturali e molto significativi.

Il segno pennellato in copertina raffigura uno di questi personaggi? Manuel: Per l’immagine di copertina io mi ero fissato con un’opera di un artista inglese anche piuttosto quotato, che aveva però un prezzo davvero improponibile per il nostro budget. Ma nonostante tutto, quell'illustrazione non riuscivo a tirarmela via dalla testa. Abbiamo superato quella fase di stallo solo quando abbiamo avuto la fortuna di incrociare Antonio Foglia, che è riuscito a realizzare un abbraccio altrettanto intenso e suggestivo, perfetto per rappresentare in maniera poetica ed emblematica il titolo e le tematiche dell'album.

Uno di questi brani, “Emme”, contiene un verso particolare che viene ripetuto più volte, e che ad una mente quantomeno sveglia dovrebbe simboleggiare una certa parte politica. Ritenete che oggi, brani di questo  tipo possano ancora mandare un monito, un messaggio importante? Franq: "Emme" è un brano molto particolare. Avevamo voglia di lasciare fluire la vena più estrema e diretta e anche il testo ha seguito questa direzione. Non c'è spazio per il politically correct, è pura partigianeria, bisogna ammetterlo. Il messaggio di fondo è politico ed è antifascista. Bisogna ricordarci che la nostra costituzione si basa su questo principio, non dovrebbe appartenere solo ad una parte politica. Il modo di affrontarlo però è diretto e anche violento se vogliamo, non ci sono mezze misure. Ha quindi a che fare col paradosso della tolleranza. Se tolleriamo l'intolleranza rischiamo che essa si diffonda e prenda il potere. 

Manuel: Con il testo di questa canzone ho un rapporto un po' contraddittorio, nel senso che sapevo avrebbe rischiato di diventare una sorta di manifesto “politico” della band, e non mi entusiasma l’idea che gli ZiDima possano venire in qualche modo percepiti come i 99 Posse della scena noise/rock (i 99 Posse comunque mi piacciono e li seguo da sempre). Infatti “Emme” la considero più uno sfogo di rabbia di cui non potevo evitare lo straripamento. Peraltro è una delle poche canzoni che così come è nata, così è stata registrata. Per quanto riguarda il contenuto, è ovvio che simboleggia una certa “parte politica”, e non mi voglio assolutamente tirare indietro da una presa di posizione comunque personale e chiara ed estrema. La mia volontà, nello specifico, era soprattutto quella di ricordare ancora una volta il male assoluto che ha rappresentato e tuttora rappresenta il fascismo (nelle sue varie forme) in questo paese, che non si dimentica né si può cercare di giustificare in alcun modo (“Non vi sopporto più, ambigui ed indulgenti, nostalgici del cazzo che inneggiate alla bandiera, alla patria, alla galera, alla caccia alla frontiera, lasciarvi appesi in piazza è sempre l’unica maniera. Come sventoli da appeso?”). Ho quindi voluto ribadire una distanza, marcare in maniera netta una posizione: perché non è vero che siamo diventati tutti così. E nel farlo ho ricordato che quella volta finì che il popolo dei tanto denigrati “buonisti” reagì in maniera emblematica. Quindi che sia intesa anche come una sorta di monito per me va benissimo. Perché sono davvero stufo marcio di sentire giustificazioni verso chi lascia morire le persone in mare con la scusa di difendere i confini, verso chi fa cortei autorizzati e protetti con le braccia tese vomitando slogan beceri, verso chi compie aggressioni a sfondo razziale restando sempre impunito. Nei confronti di questi sciacalli al potere e di questi disumani accecati dall’odio nessun tipo di giustificazione è per me più tollerabile. Detto ciò, i messaggi importanti credo arrivino dagli atteggiamenti, dai comportamenti. A me le canzoni con “messaggi politici importanti“ piacciono anche (e infatti la mia band preferita in assoluto sono i Rage Against The Machine, il cui messaggio attivistico è vincolante), ma non penso sia questo il compito principale di chi fa musica o arte in genere. Peraltro il fare canzoni “politiche” non è assolutamente una mia priorità, credimi. “Emme” è uscita di getto, come una reazione istintiva a un'ondata di odio che ti arriva addosso. Un pò come “Diaz” (presente nel primo disco, 'Cobardes' ).

Roby: Quello che colpisce e preoccupa è questa nuova ostentazione di vecchi miti folli e disastrosi per l'intera umanità e il senso di impunità di chi si pronuncia oggi fedele a queste ideologie. Purtroppo non sono bastati anni per chiudere definitivamente certi capitoli. Il contribuire alla memoria, a modo nostro, è anche un obiettivo di questo brano.

Ricollegandoci alla copertina, e credo in qualche modo anche alle vostre idee: cosa rappresentano per voi il rosso e il nero? Franq: Ogni riferimento è puramente casuale

Manuel: Raffaele, tu sai che fino a pochi mesi fa passavo le domeniche in curva sud, quindi ti lascio immaginare cosa significhi il rosso e nero per me ;-) Al di là di tutto, la copertina ha questo bellissimo disegno di Antonio Foglia che è stato realizzato in colore nero su sfondo bianco. L'abbiamo portato su sfondo rosso solo per per staccare maggiormente con la copertina del disco precedente (anche Buona Sopravvivenza ha un’illustrazione come immagine della cover, nera su sfondo bianco)

Roby: Dal bianco e nero di 'Buona Sopravvivenza 'al rosso e nero del nuovo disco. Da sempre colori all'opposto che ben si combinano anche per definire quello che suoniamo.

Nei dischi precedenti, forse a causa della produzione, la voce di Manuel risulta molto distintiva. Nell’album nuovo sembra invece venga data più enfasi alla rumorosità degli strumenti, e le parole di Manuel hanno bisogno di essere percepite in maniera più approfondita. Anche a voi coincide questa sensazione? È una questione di mera predisposizione all’ascolto? Franq: E’ stata una precisa scelta stilistica quella di portare la voce all'interno del mix, e per volontà di Manuel stesso. Questo ci avvicina di più ad un attitudine punk e hardcore, insieme ai testi più urlati che cantati (più che nell’album precedente). Anche in questa scelta si può riconoscere il tentativo di portare il sound a toccare delle punte più estreme rispetto al passato.

Manuel: Esattamente, è stata una volontà precisa. Ho chiesto a Franq e a Fabio Intraina del Trai Studio (entrambi si sono occupati dei mix) di tenere la voce un po' più sotto rispetto al passato. Proprio perché volevamo dare più risalto ad esempio alle chitarre ed estremizzare l'impatto degli altri strumenti. Poi ormai quando sento la voce in primissimo piano in un album capisco subito che si tratta di “rock italiano”. All'estero mi sembra la voce sia considerata più come uno strumento, quindi livellata diversamente, certo non viene messa davanti a tutto. E ad esempio i dischi che citavo prima (Marnero e Storm{o}, ma non solo) sono produzioni italiane che però vanno in questa direzione.

Avete lavorato a questo disco in uno dei luoghi a cui tenete maggiormente, il FOA Boccaccio a Monza. Un luogo, come d'altronde tutti gli spazi occupati, che hanno un passato sia fisico che sociale ben radicato, e che hanno un presente ed un futuro sempre incerti. Cosa rappresenta per voi questo luogo? E se in quest'ultimo periodo è stato possibile tenerlo vivo. Cosimo Porcino (basso, cori): Non è semplice riuscire a spiegare cosa rappresenta il Foa Boccaccio per noi. Negli ultimi 10 anni è stata la nostra casa, nonchè sala prove, set fotografico, video, ma anche un palco bellissimo da calcare ed in generale un luogo su cui abbiamo investito mille energie e mille sforzi. Come hai ben esordito tu, questo luogo ha una funzione molto importante e connotata in una città come Monza ed è stato lo spazio che ci ha permesso di sperimentare e praticare il DIY in ambito musicale, ma non solo. Purtroppo in questo momento i locali che ospitano il Foa Boccaccio sono oggetto di mire speculative da parti di alcuni imprenditori locali che vorrebbero distruggere tutta la struttura attualmente esistente (un campo da calcio costruito nei primi anni del 1900) per creare una palestra di arrampicata, la sede di una associazione che si occupa di montagna (il CAI), ma soprattutto ristoranti di lusso e negozi. Nonostante ciò siamo consapevoli che non saranno le ruspe a fermare le nostre idee e che insieme al collettivo monzese, non lasceremo che facilmente ci portino via lo spazio che ci ha permesso di continuare a fare quello che volevamo con la nostra musica. Porteremo sempre la solidarietà verso questo luogo e ci impegneremo ancora affinché esista. In questo ultimo periodo ovviamente non è stato semplice riuscire a frequentare il Foa Boccaccio come eravamo abituati a farlo, ma vi invitiamo a controllare sempre i social e il blog del Boccaccio per rimanere aggiornati sulle iniziative che nonostante tutto si riescono ancora a fare. Ovviamente niente concerti per adesso, ma in Boccaccio si trova sempre qualcosa da fare. 

Voi siete da sempre sostenitori dell’approccio DIY (Do It Yourself), una concezione che ha dato il suo importante contributo allo sviluppo della musica underground. Attualmente, che prospettive ha quest’approccio? Manuel: Guarda, noi l'approccio DIY l'abbiamo dal primo giorno in cui abbiamo suonato insieme. L’editing dell'album l'ha fatto Franq, che ha curato anche i mix con il Trai. Il disco precedentemente l'ha registrato e mixato tutto lui, da solo. Non abbiamo mai avuto una vera produzione artistica, forse perché non riusciamo a staccarci neanche minimamente dalla nostra musica. Comunque con questo nuovo lavoro siamo felicissimi di aver coinvolto ben 8 etichette, il cui contributo è stato fondamentale per arrivare a stampare in vinile e prezioso anche a livello umano per contatti, consigli e suggerimenti, oltre che per far girare bene il disco. Ma anche a questo giro, di tantissimi aspetti ce ne stiamo occupando noi, proprio perché sono anni che ci divertiamo a farlo. Ad esempio Franq ed io adesso stiamo curando tutta la promozione legata all'uscita del disco come un vero ufficio stampa: da mesi contattiamo riviste, blog e webzine per possibili anteprime, recensioni e segnalazioni (e per fortuna ne stanno arrivando davvero tante e spesso molto positive), impacchettiamo e spediamo vinili, cd e cd promo (questi li ho proprio masterizzati, timbrati e confezionati io), curiamo la comunicazione sui social. Abbiamo diversi file excel aperti che teniamo in costante aggiornamento, ci dedichiamo tempo e attenzione proprio come se fosse un lavoro (e chissà che in futuro non lo si fondi davvero un ufficio stampa, il nome lo abbiamo già ed è tutto un programma: Telesuono!). Cosimo invece si è sempre occupato di tutta la gestione dei live, lui è la nostra booking.

Roby: Innegabilmente l’approccio DIY ha tanti vantaggi in termini di libertà espressiva, creatività e scelte che riguardano il gruppo. Questa attività è nel contempo molto impegnativa sotto vari aspetti per chi se ne occupa. Da questo punto di vista le collaborazioni con le etichette, con altri gruppi e/o singoli musicisti, possono aiutare a far crescere non solo il singolo gruppo ma l'intero movimento che si possa definire veramente “indipendente”. Riuscire a fare un passo avanti nello sviluppo della rete, a beneficio di tutti, potrebbe essere un prossimo obiettivo comune.

Cosimo: Per noi il DIY non è solo una scelta, è una necessità. Crediamo fortemente in quello che facciamo tanto da pensare di poterlo fare da soli o solo con chi ha un'idea simile alla nostra. Inoltre non credo di riuscire ad immaginare un mondo musicale, senza scena DIY, perché le cose belle nascono così, dalla forte spinta motivazionale che ti porta a credere talmente in quello che fai che sei disposto a fartelo anche da solo e senza l'aiuto di nessuno. Non ci sono prospettive, ma solo la volontà di portare avanti le nostre convinzioni e la nostra forma d’arte. 

Quali sono le band e le varie figure che lavorano nel mondo della musica che, secondo voi, possono ancora mantenere il senso di questa attitudine? Manuel: Abbiamo condiviso il palco con un sacco di gruppi che mantengono un’attitudine DIY e con cui è sempre un piacere ritrovarsi, confrontarsi e organizzare eventi/serate/festival. Per fare qualche nome dico Fuzz Orchestra, Marnero, Storm{o}, Ruggine, i Fasti, Selva, Il Vuoto Elettrico, Devocka, Kalashnikov Collective, Filthy Generation, The Seeker. E sicuramente sto dimenticando qualcuno. Con il tour del disco precedente abbiamo avuto modo di vedere con i nostri occhi il fermento che si è sviluppato attorno a questo giro legato ai centri sociali e agli spazi occupati, e mi auguro che una volta superata l'attuale emergenza ci si possa ritrovare tutti ancora più carichi: band, pubblico, collettivi. Credo che ci sarà una grande voglia di concerti in generale, ma allo stesso tempo temo che ci saranno meno occasioni: a Milano e in Lombardia in questi mesi molti circoli e locali anche storici hanno chiuso, e i centri sociali sono costretti a battagliare per difendere spazi e ideali. Probabilmente tutta la scena della musica dal vivo “alternativa” dovrà reinventarsi, ma mi piace anche pensare che questa sarà un'occasione per trovare nuove soluzioni e diverse modalità per esprimersi, per fare le cose ancora meglio.

In conclusione, spiegate un valido motivo per ascoltare gli ZiDima e per credere ancora nella musica underground. Manuel: Chi ci conosce troverà anche in questo lavoro l’emotività che credo accompagni ogni nostro disco, per alcuni aspetti qui rappresentata in maniera ancora più esasperata. Per chi ci scoprirà adesso, questo album è il nuovo passo di un lungo percorso, iniziato alla fine degli anni '90. Diciamo che il tempo trascorso non ci ha affatto ammorbiditi, tutt'altro, e che 'Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare' piacerà a chi continua ad ascoltare un certo tipo di rock violento e viscerale.

Cosimo: Noi sentivamo ancora voglia di piangere, sorridere, arrabbiarci, gioire, saltare, correre, imprecare, parlare, ascoltare, abbracciare, picchiare così abbiamo ripreso gli strumenti in mano e abbiamo provato a trascrivere le nostre emozioni ancora una volta dentro un album. Se avete 30 minuti di tempo per provare a mettervi sui binari della nostra musica, abbiamo disegnato questo itinerario per condividerlo.

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SUFFISSO CORE

 

Come avete vissuto la fase di transizione tra 'Buona Sopravvivenza' e 'Del Nostro Abbraccio Ostinato In Questa Crepa...'?
(Franq) Ogni disco è una fotografia istantanea di un momento, ma racchiude in realtà un condensato della nostra vita, delle nostre esperienze, dei desideri e dei progetti fino a quel momento. Il momento della pubblicazione si situa proprio al centro di un ciclo. Prima e dopo ogni disco ci sono ore in sala prove, serate ai concerti suonati ed ascoltati, il conoscere altri musicisti, momenti di scambio e crescita. Una fase creativa in cui si lavora nel cerchio dei membri della band e di pochi altri e una fase di condivisione e incontro con quello che c'è fuori dal cerchio. ‘Buona Sopravvivenza’ è stato pubblicato circa 5 anni fa. Ero appena entrato nella band e ripensandoci quel momento segna l'inizio di un percorso di vita artistica ma anche personale che mi ha dato tanto e continua a farlo. I primi 2 anni sono stati soprattutto concerti suonati, tanti concerti per chi come me non lo fa per lavoro, in cui davamo tutto e ricevevamo altrettanto. Uso spesso questa espressione, i live sono la benzina della band; questi sono i momenti che più di ogni cosa mi danno l'energia per portare avanti e tenere vivo un progetto musicale. E' stato anche il periodo dei concerti ascoltati, di musicisti, promoter e gestori incontrati grazie alla musica, dello scambio di dischi, di desideri e di progetti. Non possono mancare anche i momenti in cui siamo stati più concentrati sulla nostra vita fuori da ZiDima. Si sa, ci sono alti e bassi, cicli e ricicli e ci si trova sempre prima o poi al momento delle scelte e delle conferme. Tenere in vita la creatura ZiDima non è stato scontato. A vederla con gli occhi di oggi sembra solo il naturale corso degli eventi, il nostro destino. Ma è nata nuova musica perchè avevamo ancora quella stessa urgenza di quando abbiamo iniziato e il meccanismo ha ripreso a muoversi, prima lento poi accelerando fino a concretizzarsi in ciò che poi abbiamo registrato in studio. Con le restrizioni che tutti conosciamo siamo rimasti un po' a secco. Fortuna che abbiamo trovato il modo di far conoscere il nostro lavoro e abbiamo trovato molte etichette a crederci. Sempre grazie alla condivisione di etichette, webzine, vecchi e nuovi amici e fan, il nostro disco sta girando anche senza concerti.
(Manuel) Se penso agli ultimi 5 anni provo due sensazioni contrastanti: un pò di affanno e tanta gratitudine. La prima sensazione riguarda il periodo 2015-2017, in cui abbiamo suonato ‘0Buona Sopravvivenza’ in più di 40 concerti e sempre con grande intensità. Poi c'è stata una fase di difficoltà, legata a un periodo critico anche a livello personale in cui ci siamo visti pochissimo, lontani dai palchi e dalla nostra sala prove. Se questa fase è stata superata è solo per merito degli altri zidimi, che hanno sempre creduto nella possibilità di tornare a suonare insieme con assiduità e passione. Io mi sono limitato a farmi trascinare, fino a quando le cose hanno preso il loro naturale corso. Di fatto, è bastata avere la possibilità di tornare nella nostra sala prove, allestita all'interno del centro sociale Foa Boccaccio di Monza, un luogo che amiamo e frequentiamo da ormai 10 anni, che fa parte integrante della storia di questo gruppo e abbiamo voluto celebrare con il video di ‘Vale’) e tutto è stato più semplice. Io ero comunque già davvero molto soddisfatto del nostro percorso, del disco precedente, di quello che eravamo riusciti a fare in tutti questi anni e di come l'abbiamo vissuto insieme. E provo adesso un gran senso di gratitudine nei confronti dei miei compagni musici e complici perché hanno permesso che quel filo non si spezzasse. Oggi siamo tutti pienamente coinvolti ed entusiasti come ragazzini. Non solo siamo riusciti a fare un nuovo disco insieme, ma ne abbiamo fatto uno forse per noi più importante di ‘Buona sopravvivenza’.
(Cosimo) 5 anni possono sembrare una vita intera per chi come me è abituato a suonare sempre e comunque da quasi 20 anni; ma a volte per una band come la nostra, forse sono la naturale presa di tempo necessario per chiarirci le idee su quello che stavamo producendo, sulla possibilità di scambiarci opinioni sulle tracce che uscivano fuori dalle poche ore passate in sala prove. Il lavoro di produzione di questo ultimo album è stato differente. In ‘Buona Sopravvivenza’ c'era l'urgenza di produrre un album insieme a Franq, che si era appena unito al gruppo e ci ha dato una spinta notevole nella voglia di suonare insieme. Mentre ‘Del nostro abbraccio ostinato..’ è nato suonando e risuonando i pezzi fino a trovare delle strutture anche più ardite ed articolate rispetto al passato di ZiDima.

 

Quando avete cominciato a scrivere i nuovi brani? Avete notato delle differenza in fase di composizione e registrazione?
(Franq) Quasi sempre, quando ci vediamo in sala, improvvisiamo per scaldarci e vengono fuori molte cose interessanti, ma non sempre hai la voglia o la possibilità di lavorarci per farne uscire un pezzo - in periodi di intensa attività live si bada a portare a casa la scaletta. Credo che tra il 2017 e il 2018 abbiamo potuto dedicarci di più a creare nuovo materiale ma non è stato facile all'inizio.
Avevamo molte idee, ma non eravamo mai soddisfatti di dove stavano andando. Hai presente quando non sai cosa vuoi, ma sai cosa non vuoi? Ecco una roba del genere. Quando non ti poni limiti resti sempre spiazzato dalla vastità dello spazio che ti trovi davanti, ritrovarci come band all'interno di questo paesaggio non era facile. Col tempo siamo riusciti a definirlo, a capire da che parte potevamo andare insieme. L'intenzione era quella di estremizzare la nostra proposta, ma non solo in un verso (più pesanti, più distorti, più incazzati ecc.), anche nell'altro. Si potrebbe dire che abbiamo rispecchiato la polarizzazione a cui abbiamo assistito nella realtà politica e sociale del momento. E poi c'era questa voglia di condividere che ci ha portato alle collaborazioni del disco, che ne sono la vera particolarità.
(Manuel) Recentemente Facebook mi ha ricordato che il testo di ‘Vale’ l'avevo scritto a ottobre 2017, quindi 3 anni primi della sua effettiva pubblicazione. I germi dei brani di questo album nascono quindi in quel periodo, anche piuttosto critico e particolare come ti accennavamo prima. E nascono comunque sempre sotto forma di improvvisazione. Poi molte cose abbozzate si perdono, altre invece riescono a sopravvivere. Su queste ultime si è poi lavorato con maggiore attenzione, cercando percorsi meno confortevoli o comunque diversi per quanto riguarda strutture e arrangiamenti. Credo anche che i due anni passati a dividere palchi con gruppi che facevano musica più estrema della nostra abbiano influenzato un po' questa direzione, perché alla fine ‘Del nostro abbraccio ostinato..’ credo sia il nostro disco più violento, con molti parti in stile hardcore (le voci e i cori screamo, gli assalti della sezione ritmica, le sfuriate sfacciate delle chitarre). Con le successive collaborazioni si è voluto "estremizzare" anche altri aspetti più legati all'emotività che al suono.

 

A livello di produzione che obiettivi vi siete posti? Vi siete ispirati a degli album specifici per il suono di chitarre, batteria e voce?
(Franq) Anche in registrazione abbiamo voluto aprirci ed entrare in contatto con nuovi suoni. Se nel disco precedente avevamo prodotto tutto "in casa" - occupandomi io di ogni aspetto della registrazione e del mix - e con un tempo più limitato (una sola giornata di registrazione), questa volta abbiamo scelto di avvalerci dell'aiuto di un quinto elemento che si occupasse della parte tecnica, e di prenderci più tempo. Avevamo valutato anche di farci seguire da un produttore artistico, ma forse non eravamo ancora pronti a metterci in gioco fino a quel punto, magari un giorno, chissà. Abbiamo ascoltato tanti dischi bellissimi a cui ci sentivamo vicini e notammo che spesso spuntava fuori che lo aveva fatto il Trai, citando la serie Dirk Gently "è tutto collegato". L'approccio non è cambiato, abbiamo registrato tutti insieme come il precedente, ma le condizioni erano molto diverse. Intanto io potevo occuparmi più della parte musicale, e poi avevamo Fabio come specchio del lavoro che stavamo facendo, ci ha aiutato tantissimo. Anche da questa scelta nasce, quasi per caso o forse no, la collaborazione con Ale dei Selva. Le altre collaborazioni erano rimaste fino a quel momento un desiderio. Già nella fase di composizione ne avevamo parlato e avevo cominciato a portare alle prove un synth tascabile. In fase di sovraincisione hanno visto la luce delle vere parti per synth, piano, fiati e archi. Io ho potuto registrare le prime due, ma per archi e fiati avevamo bisogno dei musicisti. Così sono entrate a far parte del disco la tromba di Emidio Bernardone in ‘Roby’ e il violino di Raffaele Terlizzi in ‘Chiara’, che ringrazio ancora davvero tantissimo a nome di tutta la band.
(Manuel) Avevo sempre sentito parlar bene del Trai Studio e di Fabio Intraina. Peraltro molti dischi che ascoltavo e ascolto ancora oggi sono stati registrati lì, a partire da "Malelieve" dei Juda che ha davvero un suono carico di pathos e di colori e che da molti anni porto sempre come mio esempio di sound ideale. Ma anche altre band amiche come i Selva o i Dhole ci avevano detto grandi cose sul Trai. Che sarebbe stato il posto ideale per fare un lavoro di qualità, e soprattutto nelle condizioni di naturale serenità che ci eravamo proposti di trovare e di cui avevamo assoluto bisogno, ce ne siamo accorti subito il primo giorno di registrazioni. Poi con Fabione è nato un bellissimo rapporto. Con Franq si sono confrontati anche nelle fasi di mixaggio e sono sicuro sia stata un'esperienza gratificante per entrambi. Insomma, ci siamo trovati benissimo sia a livello tecnico che a livello umano. L'unica pecca è che lui capisca poco di pallone.. Per il discorso sulle sonorità, non è che ci siamo ispirati a un album in particolare. Certo io prima di andare in studio sono solito indicare quei miei 3-4 dischi italiani di riferimento, anche per il suono e il livello della voce. Oltre al già citato ‘Malelieve’ dei Juda, segnalo sempre ‘Lacrima/Pantera’ dei The Death of Anna Karina. Poi credo di aver suggerito anche i dischi di Marnero (‘Quando vedrai le navi in fiamme sarà giunta l'ora’), Storm{o} (‘Sospesi nel vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso’), Øjne (‘Prima che tutto bruci’), e sicuramente una canzone di Andrea Laszlo De Simone (‘Conchiglie’), proprio per l'effetto particolare usato sulla voce.

 

Il disco esce per diverse etichette. Come mai questa scelta? C'è ancora bisogno di un'etichetta al giorno d'oggi per promuovere la propria musica?
(Manuel) Per noi è la seconda esperienza con le etichette, vuol dire che ci eravamo trovati bene e abbiamo voluto replicare. Non solo, abbiamo provato ad allargare la coproduzione riuscendo a coinvolgere 8 etichette sparse un po' in tutta Italia. Non so dirti quanto sia necessario avere un'etichetta per promuovere la propria musica oggi, con i mezzi che comunque ci sono a disposizione (ad esempio, di tutta la promozione del disco ce ne stiamo occupando direttamente noi, proprio perché abbiamo gli strumenti per farlo e soprattutto anche un pò di tempo e di esperienza per riuscire a farlo bene). Quello che posso dirti è che per noi il loro è stato un contributo vitale per arrivare alla stampa in vinile prima, e un'importantissima occasione di confronto e di aiuto reciproco poi. In genere da queste situazioni poi nascono anche serate, festival, incroci con altre band. Per quanto il web renda più accessibili oggi certi meccanismi, il rapporto umano e i preziosi legami che si riescono ad instaurare portano sempre a soddisfazioni più grasse e a volte anche ad amicizie vere e durature. Poi il disco sta girando tanto anche grazie alle etichette.
(Cosimo) Onestamente penso che il lavoro che fanno le etichette oggi sia sottovalutato, o quantomeno non abbastanza considerato. Come diceva Manuel, senza di loro non avremmo mai stampato il disco in vinile e questo penso sia già un aspetto da non sottovalutare per una band. Inoltre tutte le etichette si stanno sbattendo tantissimo per far conoscere il nostro disco in particolare, ma fanno così per tutte le bands, quindi in mondo in cui non c'è più la carta stampata o la tv che ti fa conoscere il nuovo artista o l'ultima uscita della band semisconosciuta, la voglia e la passione delle etichette, delle zines, webzines blog e quant'altro sono un come una manna dal cielo per le bands. Lunga vita alle etichette indipendenti!

 

A quale mare fate riferimento nel titolo?
(Manuel): Il titolo del disco è tratto dall'incipit di ‘Anna K.’, una delle sette storie/canzoni presenti nel disco. L'immagine dell'abbraccio mi girava in testa da parecchi anni: ricordo piuttosto bene un'illustrazione del 2010 apparsa su indymedia che raffigura alcuni ragazzi abbracciati sul tetto di un centro sociale milanese durante uno sgombero. E' un gesto molto bello e molto forte, ancora di più se inserito in un contesto particolare come quello che stiamo vivendo in questi mesi. Credo che quella suggestione mi abbia accompagnato per tutti questi anni, e sia sfociata mentre scrivevo il testo di quella canzone. Fa riferimento fondamentalmente a due cose: a quel periodo in cui siamo rimasti in maniera anche romantica ostinatamente attaccati al nostro modo di fare musica, e una sorta di minaccia: per quanto questo gesto sia lontano e poco visibile (è collocato in una crepa in fondo al mare, quindi con una distanza abissale da tutto), è una piccola manifestazione di cocciuta resistenza e perchè no, di pericolosità.

 

In generale quali temi trattate coi testi? Desiderate trasmettere un messaggio in particolare?
(Manuel) La promessa fondamentale è che i testi nascono sempre da quello che mi arriva ascoltando gli altri in sala prove. Non riuscirei ad avere alcun tipo di credibilità davanti a un microfono senza questa spinta. Non scrivo a casa, per conto mio, testi/appunti/frasi da poter riciclare per qualche canzone. Né mi alleno in alcun modo nello scrittura. Gli spunti nascono al momento, per empatia o per reazione contraria o per magia, chissà. Poi certo c'è una fase di rielaborazione, anche molto lunga, in cui cerco di dare un senso più o meno compiuto a quelle parole. Ma mai con il desiderio di dare un messaggio in particolare. In ogni caso, questo è l'album con meno riferimenti personali. Un po' per caso, ci siamo trovati a raccontare le inquietudini di alcune persone con cui siamo entrati in contatto, e siamo finiti col realizzare questi sette ritratti musicali che abbiamo poi intitolato con i nomi dei protagonisti di queste vicende. Quindi a parte il titolo e il brano ‘Roby’, nel disco non ci sono riferimenti agli umori e alle giornate storte degli zidimi, ma le scelte per me affascinanti e liberatorie di personaggi reali che abbiamo incrociato più o meno direttamente. In realtà sette più uno: che è Emme, che porta con sé un discorso diverso e forse questo sì anche un messaggio particolare..
(Cosimo) Manuel è bravissimo nel riuscire a catturare il nostro umore in sala prove e ribadire in parole quello che gli strumenti urlano. Le storie di queste sette personaggi è vero che non sono riferite in particolar modo ai nostri momenti personali (tranne ‘Roby’ come diceva Manuel), ma io spesso mi ci rivedo in alcuni passaggi o in alcune frasi, ed è per questo che poi magari mi viene ancora più naturale urlarli al microfono.

 

Perché tutto quel rosso in copertina?
(Franq) Nessun riferimento voluto. Volevamo semplicemente cambiare, visto che anche il disco precedente aveva un illustrazione su sfondo bianco.... Diciamo che i colori di ZiDima sono il bianco, il rosso e il nero... che rispecchia anche le fedi calcistiche di tre quarti della band.. Ho provato a infilare un po' di azzurro qualche volta ma senza risultati. Quindi posso già anticiparvi che, per esclusione, il prossimo avrà probabilmente uno sfondo nero, magari un po' di azzurro, chi lo sa.
(Manuel) In copertina c'è un bellissimo disegno realizzato appositamente per noi da Antonio Foglia, che abbiamo portato su sfondo rosso proprio per staccare maggiormente con la copertina del disco precedente. Poi un vinile rosso con copertina rossa non ce l'avevo ancora in casa, ed esteticamente funziona molto bene anche come oggetto di arredo (dai scherzo, i vinili fateli vivere nei giradischi!)

 

Chi è Anna K.? Come l'avete conosciuta?
(Manuel) Il titolo ‘Anna K.’ va inteso come un omaggio esplicito ai The Death Of Anna Karina, visto che Giulio Bursi, il loro cantante di quel periodo, mi ha concesso di utilizzare parte di un suo magnifico testo, tratto dal brano ‘Così che non potranno più prenderci’. Avevo questo buco nella prima strofa che non riuscivo a riempire, poi un giorno mi sono trovato a cantare quelle sue parole. E funzionava tutto. Dava peso emotivo al resto del testo, lo rafforzava e ne permetteva un ulteriore sviluppo. Così quel brano che si intitolava ‘Una crepa’ è diventato ‘Anna K.’. Poi Giulio mi ha fatto sapere a chi fosse dedicato quel suo testo, ma è una cosa che tengo per me. Quindi Anna K. (che poi sta per Anna Karina, famosa attrice del cinema francese degli anni 60, purtroppo recentemente scomparsa) non è una persona che noi abbiamo conosciuto direttamente, ma io ho seguito e amato visceralmente la band che porta il suo nome (band con cui ci vantiamo di aver condiviso il palco). In ogni caso anche questa è una canzone d'amore.

 

E invece Chiara? Come è nata la collaborazione con Alessandro Andriolo dei Selva?
(Manuel) Chiara è stata una mia collega ed ancora una preziosa amica, che a un certo momento della sua vita ha fatto la scelta coraggiosa di mollare veramente tutto, per seguire la sua passione senza alcun compromesso. Una persona favolosa che mi ha insegnato veramente tanto, e che purtroppo non vedo da troppo tempo. Non credo si sarebbe mai immaginata di finire dentro una mia canzone. E in realtà non so neanche se lo sappia adesso, con certezza, di essere lei la Chiara di questo brano. Per quanto riguarda Ale era passato in studio per caso, e visto che in quel momento stavamo registrando le seconde voci di Cosimo, gli ho chiesto se aveva voglia di partecipare ai cori. Lo conosciamo da tempo e anche con i Selva abbiamo più volte condiviso il palco. Quindi non è stato così difficile coinvolgerlo. Quello che ci ha stupito è stata la grande preparazione con cui si è presentato al microfono (ricordo che si è isolato per una quindicina di minuti a fare esercizi molto particolari per scaldare la voce) e l'attenzione e la cura che ha messo per fare la sua parte. Ne è venuto fuori un incrocio vocale potentissimo, che era esattamente quello che cercavamo per quel "ritornello".

 

La voce di Manuel è spettacolare. Come costruite le linee vocali? Nascono prima o dopo le parti di chitarra?
(Manuel) Ringrazio per gli eccessivi complimenti, in realtà io quando mi riascolto provo sempre un certo fastidio, così come quando per via del mio timbro scrivono che sembriamo i Marlene Kuntz, e non si va oltre nell'analisi. Ma questo è un altro discorso che ormai ho imparato ad accettare. Come ti dicevo prima le linee vocali nascono sulle parti strumentali, spesso casualmente. Poi ci sono cose che cerco di evitare, sicuro non mi piace la melodia facile e non ho una voce particolarmente armoniosa. Ammetto però che se sapessi cantare come un Renga o meglio, come Edda, probabilmente direi e farei l'opposto. Però sì, l'intenzione è quella di usare la voce come se fosse un quarto strumento (dissonante).
(Franq) In sala nasce un germe diciamo, le linee vocali sono parte integrante dello scheletro e della struttura del brano e di cui la parte musicale spesso si "nutre" evolvendo di conseguenza. Insomma la parte vocale, seppure non sia spesso melodica è un quarto strumento, indispensabile anche in fase di scrittura, un elemento che origina e allo stesso tempo è generato dalla parte musicale, in uno scambio continuo con essa. Manuel è fenomenale in questo suo modo di connettersi al sentimento musicale, che creano gli altri strumenti, amplificandolo con i suoi interventi. Senza di lui la musica andrebbe da tutt'altra parte. Anche i testi subiscono molte trasformazioni, Manuel li affina via via come un mastro cesellatore, e a volte li affila proprio come fossero coltelli.

 

Non avendo mai avuto la possibilità di vedervi dal vivo, come sono i vostri concerti? Dilatate certe parti strumentali o vocali? Improvvisate?
(Franq) A questa domanda preferiremmo tanto risponderti con i fatti, ma purtroppo l'orizzonte è ancora lontano. Bisognerebbe chiedere a chi ci ha visti suonare negli ultimi anni, quello che ci dicono spesso è che abbiamo un forte impatto. C'è una forte energia nei concerti - e come la avvertiamo noi la avverte anche chi assiste - quasi mistica se vuoi, con impeti liberatori. Come se concentrassimo tutte le esperienze, i sogni e i desideri, ma anche tormenti, pene e malessere in un nucleo piccolissimo, come un buco nero per poi scoppiare come una supernova liberando tutta l'energia sotto forma di suono. Sul palco siamo abbastanza quadrati, zero improvvisazione se parliamo di struttura, scaletta quasi identica, maciniamo pezzo dopo pezzo con poche pause. Per me è come andare in trans, alla fine sembrano passati 3 minuti e invece abbiamo suonato per 30. Ma ogni concerto ha le sue sfumature, non siamo certo macchine.
(Manuel) Sul palco ci danniamo e sfoghiamo senza ritegno. Ne viene fuori un cabaret "d'arte varia" molto intenso e anche divertente, che spesso ci lascia segni addosso anche per un paio di giorni. Per quanto richieda energie fisiche e mentali comunque non indifferenti, quella dei live è assolutamente la parte che preferisco del mio modo di essere parte di una band, perché è liberatoria come poche altre cose nella vita. Anche se ogni volta mi prometto di limitarmi, pensando soprattutto ai postumi in agguato, in quei momenti mi slego totalmente dal resto del mondo e penso solo a farmi trascinare dalle emozioni, finendo spesso per cantare inginocchiato o a lanciarmi nel pogo con il pubblico, come se avessi ancora la loro età. In effetti col tempo ho fatto capire che resto giù a pogare solo se trovo un pogo rispettoso degli anziani. Comunque ci è stato detto più volte che i nostri live siano ancora più intensi dei nostri dischi. E io che appunto ogni tanto scendo tra il pubblico durante il concerto, te lo posso confermare: dal vivo gli ZiDima sono emozionanti, e travolgenti.
(Cosimo) Suonare dal vivo è stato, è sarà per me, il momento migliore dell'essere musicista. Non tanto per l'esposizione che facciamo agli altri, ma perché in quei 30 minuti riesco ad astrarmi dal resto del mondo e a farmi trascinare dalla musica. Non mi importa chi ci sta guardando (che siano 300 persone o pochi intimi), voglio poter tirare fuori quegli aspetti di me stesso che non posso esibire tutti i giorni, sfogare la violenza, riempirmi di pathos, emozionarmi; per questo alla fine dei concerti spesso abbiamo i segni sul nostro corpo (mal di schiena, voce rauca, acufene, stomaco scombussolato dalla birra e altri che puoi immaginare). Chi sente un racconto così potrà dire, ma chi te la fa fare! Non è semplice da spiegare, ma sento la necessità di farlo e con ZiDima questa necessità spesso si tramuta in grandi esplosioni di energia e coinvolgimento emotivo. Anche perchè ormai ci conosciamo da qualche anno e l'intesa che riusciamo a raggiungere ci porta anche a capire se uno sta andando in una direzione o in un'altra trovando sempre il modo di creare il climax che abbiamo intenzione di comunicare a chi ci guarda. Quindi sì scaletta precisa e provata, ma anche qualche improvvisazione dovuta alla necessità del momento.

 

Quali sono i gruppi italiani con cui avete legato maggiormente in questi anni? E invece uno o due che non conosce nessuno e che meriterebbero di essere famosi?
(Manuel) Un pò di nomi li abbiamo già fatti nelle risposte precedenti. Tra quelli con cui abbiamo legato maggiormente aggiungo sicuramente I Fasti (poesia ed elettronica da Torino), Il Vuoto Elettrico (sfuriate noise da Brescia), i Filthy Generation (trio elettro-techno-punk dalla Brianza), e poi altre band che al momento sono ferme ma con cui abbiamo passato serate indimenticabili: e quindi i Ruggine (da Cuneo), i Gordo e Miky Bengala, gli Iceberg (da Pavia) e i Jerrinez (Milano old school). Un gruppo che merita di diventare famoso? Ti dico i Vintage Violence, con cui ci si siamo incrociati spesso all'inizio di questa avventura e verso cui nutro sempre un affetto enorme. Sì, mi piacerebbe proprio vederli diventare ricchi sfondati con la loro musica.
(Cosimo) La cosa bellissima che ci ha portato la nostra musica è quella di aver conosciuto gente vera che ci ha colpito nel profondo. Mi limito a dire: bands voi sapete chi ringrazio, perché siete davvero troppi per citarvi ad uno ad uno.

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Gli ZiDima nascono alla fine degli anni ’90. Come nasce il nome del progetto e come si è evoluto il gruppo e il suo suono in questi anni?
Il primo demo è del 1999 e di quella formazione originaria è rimasto Roberto, fondatore e chitarrista della band. Zi’Dima è il nome di un personaggio di una novella di Pirandello, “La Giara”. Erano gli anni della prima e già tragica ascesa della lega lombarda, e sin da subito volevamo prendere la più marcata e totale distanza da certe tematiche, scegliendo anche un po’ provocatoriamente un nome siciliano per una band milanese formata (all’epoca) da 4 milanesi.
La storia di quel personaggio è fatta di umanità, generosità e cocciutaggine, tutti valori che ci piaceva potessero venire identificati con la nostra musica. Negli anni la line-up ha affrontato diversi cambiamenti, ci sono stati momenti in cui avevamo due chitarristi e (agli esordi) una voce femminile. Abbiamo comunque sempre scritto e cantato in italiano. Per quanto riguarda il sound si è via via irrobustito e innervosito e incattivito, anche se le chitarre distorte e dissonanti, le voci parlate/urlate e i riferimenti al noise-rock sono presenti sin dall’ep “L’attesa” datato 2004. Dopo vari singoli e partecipazioni a diverse compilation, il nostro primo disco esce nel 2009: “Cobardes”, con l’arrivo di Cosimo al basso. Il secondo, “Buona sopravvivenza” del 2015, è nato con l’ingresso di Franq alla batteria. Manuel invece è nel gruppo dal 2002, quindi con questo nuovo album lui e Roby festeggiano ben 18 anni di “convivenza sonica”.

“Vale” è accompagnata da un video stupendo, girato al Foa Boccaccio di Monza, posto a cui siete molto legati. Negli anni gli spazi sociali stanno via via scomparendo (notizia recente è a rischio pure il Boccaccio) e di conseguenza il panorama musicale che gli gravita attorno è mutato. Come valutate la situazione oggi comparandola a quella che avete vissuto agli inizi?
Il Boccaccio però non sta scomparendo, sta resistendo e sta portando avanti la sua battaglia contro un’assurda minaccia di sgombero; invitiamo quindi tutti a seguire le iniziative che i ragazzi stanno portando avanti e che sono segnalate sul sito
boccaccio.noblogs.org.
Per quanta riguarda il video, suggella il legame che c’è tra noi come band e come persone e questo centro sociale che frequentiamo da quasi 10 anni. L’idea e la realizzazione sono state curate con grande passione e professionalità dai ragazzi del Boccaccio, e noi crediamo che il video di “Vale” rappresenti e celebri a dovere le anime che tengono vivi questi spazi. Il discorso sul panorama musicale che vi gravita attorno è più articolato. Vediamo band giovanissime con proposte musicali molto estreme (e anche molto coraggiose), che magari spaziano dal grindcore al powerviolence alla techno all’elettronica sperimentale. Sarà anche per via degli strumenti a disposizione: oggi rispetto a una chitarra e un basso, sono più accessibili un computer, una tastiera, un programma craccato. E forse sta venendo un pò meno anche tutto l’aspetto legato al Do It Yourself, alla contaminazione tra generi musicali, al suonare dal vivo in contesti diversi, magari in serate o festival con proposte anche piuttosto distanti tra loro, ma accomunate da una stessa attitudine. Oggi sembra invece che sia prioritario caricare un brano su youtube piuttosto che salire su un palco, e il disco inteso come supporto fisico e anche come concept album è un’idea romantica che fa fatica a resistere. Tutto ciò per dire che il nostro genere di riferimento, diciamo il “rock alternativo”, sta diventando ancora più di nicchia e ha come riferimento un pubblico più adulto.
Ma è un processo naturale, è il classico e doveroso cambio generazionale: sono diverse le influenze e gli stimoli, diversi gli strumenti e i mezzi a disposizione, diversi i fenomeni sociali e anche di moda (quando abbiamo iniziato tutti suonavano o ascoltavano il grunge, oggi fanno tutti rap o la trap).

I brani del disco ci raccontano delle storie. 7 personaggi (+1) in cui è facile immedesimarsi (ad eccezione del +1). Si narrano sconfitte personali il tutto in una tonalità grigia e cupa.
Permane comunque un senso di vittoria e rivalsa finale, un invito ad alzare la testa anche nei giorni più no. Come nascono o da dove arrivano queste storie?

Ci piace molto che venga sottolineato qui e nelle recensioni che stanno arrivando il senso di rivalsa di queste storie, non perchè amiamo il lieto fine scontato, ma perché era uno degli aspetti che ci avevano colpito e che volevamo fare emergere: sono storie reali di persone con cui siamo entrati in contatto, e con alcuni di loro ci sono anche forti legami affettivi. E sono sì storie che parlano di sconfitte personali e momenti di sconforto e di criticità anche pesanti, ma raccontano anche e soprattutto di scelte, forse estreme ma quasi sempre liberatorie e coraggiose. I 7 nomi dei personaggi sono quelli dei titoli delle canzoni, quindi “Vale”, “Chiara”, “Anna K.”, “Roby”, “Zita”, “Paolo e Rocco”. Poi c’è “Emme”, che è capitolo a parte: è più uno sfogo, un fiume di rabbia che poteva solo straripare. Manuel ha voluto mettere un punto bello chiaro per ricordare che i tanto derisi “buonisti”, in passato a certi sciacalli e disumani hanno riservato un trattamento emblematico: li hanno fatti sventolare, appesi a testa in giù.

Parlando invece dell’aspetto puramente esecutivo, come nasce una canzone degli ZiDima? Partite dalle parole o dai suoni?
Partiamo sempre da improvvisazioni strumentali, che poi si sviluppano e sulle quali solo più avanti si aggiunge un testo.
Abbiamo sempre avuto questo tipo di approccio: lasciarsi un pò andare fino a sfogarsi e a farsi trascinare dalla musica. Poi ovviamente ne curiamo le strutture, gli arrangiamenti. Ma la prima fase è di improvvisazione totale. Vero anche che suonando insieme da molti anni, sappiamo già in partenza a che tipo di brano e verso quale direzione stiamo andando in contro. Per le canzoni di questo album abbiamo infatti cercato di evitare di riproporre le stesse dinamiche in cui ci troviamo “naturalmente” a nostro agio, e abbiamo lavorato molto più che in passato su stacchi, passaggi armonici o disarmonici, ma anche sui suoni, le “melodie”, i cori. Poi qualcosa di pancia come “Emme” c’è sempre: il classico pezzo che così è nato, così è stato registrato.

Oltre la nostra etichetta, ci sono altre sette realtà che hanno collaborato all’uscita del disco, come vi siete conosciuti e quale significato ha per voi questo tipo di supporto?
Voi siete stati i primissimi a cui abbiamo mandato i brani mixati.
Ricordiamo bene che anni fa Fabio ci aveva intervistato per Radio Onda d’Urto e poi aveva organizzato un concerto nel bresciano.
Appena ha saputo che stavamo per entrare in studio, ci ha proposto la collaborazione con Gasterecords. Quindi ci ha proprio inseguito. E noi siamo strafelici che l’abbia fatto. Le altre etichette le abbiamo cercate in seguito: alcune si erano già occupate di “Buona Sopravvivenza”, con altre ci siamo incrociati per caso e avvicinati per affinità. Il supporto delle 8 label che sono dietro questo nuovo album è stato fondamentale: primo perché senza questo contributo non saremmo mai riusciti a stampare in vinile, e poi per tutto quel caloroso vortice di consigli e suggerimenti e contatti e stimoli che servono per far girare bene il disco e che spesso sfocia in nuove occasioni per conoscere anche altre realtà, altre band e dividere palchi.

Sappiamo che in questo periodo particolare non è per niente facile organizzare concerti e promozione del disco, ma quali saranno le vostre prossime tappe?
Per quanto riguarda i concerti, vista la situazione, è già tanto aver fatto la data di presentazione al Boccaccio, nel momento e nel posto in cui volevamo, davanti a chi ci ha sempre sostenuto.
Ovviamente con l’aggravarsi dell’emergenza Covid altre date che avevamo chiuso o che erano in prossimità di chiusura, sono saltate.
Ma non ci abbattiamo e contiamo di recuperarle appena sarà possibile. Certo arrivare a fare più di 40 concerti come per il disco precedente in questo momento sembra un’impresa, ma ci faremo trovare pronti per quando tutto tornerà alla normalità.
Intanto useremo questo periodo per spingere con la promozione dell’album e per cercare di fare circolare queste canzoni il più possibile. Anche con il vostro prezioso aiuto.