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interviste NITRITONO

 

Prima di addentrarci tra i meandri del vostro nuovo lavoro di studio, descriveteci gli ultimi anni del progetto Nitritono. Da “Panta Rei”, vostra seconda release, sono passati due anni e mezzo: come avete portato avanti il lavoro di sala prove, concezione dei brani e, di fatto, l’attesa per quello che è il presente dei Nitritono?

Sono stati due anni e mezzo molto densi e per nulla facili, a dire la verità. “Eremo” è nato da un processo abbastanza lungo e discontinuo. I primi pezzi sono stati concepiti nella sala prova che avevamo in condivisione con i Ruggine, dove purtroppo abbiamo subìto due furti a distanza di un anno l’uno dall’altro. Successivamente, abbiamo avuto una fase di stallo in cui abbiamo provato in una sala prove comunale (ringraziamo tantissimo gli amici che la gestiscono per averci lasciato portare parte della nostra strumentazione, così da poter continuare a lavorare sul nostro suono); infine siamo approdati nell’attuale spazio che condividiamo con i Dogs For Breakfast, dove abbiamo definito la tracklist e studiato a fondo i dettagli dei pezzi. Sembra banale, ma questo crediamo abbia influito nella scrittura dei brani. In fondo la “saletta”, per noi musicisti, è un po’ una seconda casa, quel posto quasi mistico dove si respira una sorta di energia. Cambiarne ben tre per portare a termine la tracklist ci ha fatto sentire un po’ ‘vagabondi’, nel bene e nel male. Tutto questo ci ha fatto capire che far musica, creare e sperimentare rappresentano una sorta di eremo emotivo, da qua il collegamento con la nostra altra grande passione comune: camminare in solitudine negli spazi naturali. La concezione dei brani è rimasta la stessa sin dall’inizio: iniziamo le prove improvvisando liberamente: le idee che ci convincono di più le mettiamo da parte e iniziamo a dargli una struttura e a curare i dettagli. Abbiamo provato con “Panta Rei” a scrivere un paio di idee “a tavolino”, ma a posteriori il risultato lo troviamo poco convincente.

Per chi non fosse a conoscenza del vostro sound e del Nitritono-pensiero, come parlereste, da entità esterne, di ciò che è, e trasmette, il duo? Quali sono le vostre band di ispirazione e quali altre forme d’arte hanno guidato e dato forma al vostro lavoro fin’ora?

Il duo è nato in seno a “Carboniferous” degli Zu, un disco che per entrambi rappresenta un punto di svolta importantissimo per la nostra formazione musicale. L’idea primordiale – che portiamo avanti tutt’ora – era quella di creare un progetto che avesse un forte impatto di masse di suono in movimento, a tratti saturando a tratti svuotando, cercando di utilizzare un linguaggio il più possibile personale (per carità, nessuno inventa niente eh). Quando andiamo a vedere un concerto, tendenzialmente preferiamo band che ci colpiscono nello stomaco. Quindi speriamo sempre di colpire esattamente in quel punto. A livello di band di ispirazione citiamo sicuramente sempre gli Zu, seguiti da Melvins, Sumac, Oranssi Pazuzu, Om, Swans. Insomma, tutto un determinato sound psichedelico e potente.

“Eremo” segna il vostro ritorno, un ritorno a mio parere molto atteso da tutta una fetta di ascoltatori che cercano nella sperimentazione e nella ricercatezza sonora un qualcosa di “altro” e ulteriore da portare a casa. Gli aspetti “esterni”, come artwork e nome dell’album, come potrebbero essere descritti? Cosa si cela dietro questi dettagli e quanto, a vostro parere, possono ancora essere determinanti caratteristiche di questo tipo per la creazione di una relazione con l’ascoltatore?

Per l’artwork ci siamo affidati sempre a Cristina Saimandi (che è la madre di Sir, chitarrista), già autrice delle copertine del demo e di “Panta Rei”. In questo caso però, più che una collaborazione (in senso classico del termine) si tratta piuttosto di un percorso in comune che abbiamo fatto in momenti diversi. Cristina ha curato un progetto di LandArt presso la Certosa di Pesio (CN), partecipando anche attivamente alla creazione di un’opera d’arte da inserire nel percorso naturalistico del Parco del Marguareis (essendo un’opea permanente, chi vuole può andare a vederla durante la bella stagione). Quando abbiamo preso la decisione di intitolare il nostro disco “Eremo”, il collegamento è stato istantaneo: cosa avremmo potuto chiedere di meglio se non un’opera d’arte posta su un eremo? Il titolo del disco deriva dalla nostra passione di camminare in solitaria, del piacere che proviamo a stare per un po’ di tempo lontani da tutto e da tutti per ritrovare, invece, silenzio e pace. I titoli dei brani sono tutti posti dove siamo stati (alcuni sulle montagne della provincia di Cuneo, altri sul cammino di Santiago de Compostela) e che ci hanno lasciato un segno, un’emozione o una sensazione dentro. La relazione con l’ascoltatore crediamo si basi principalmente sulla musica e su come poi uno la presenta in sede live. Questi aspetti “esterni”, a nostro avviso, devono essere il più coerenti possibile con l’aspetto sonoro, così da poter fungere da rinforzo e non da elemento di distrazione.

Sei tracce e titoli evocativi, che necessitano di una descrizione, in quanto sicuramente ricchi di significati che potrebbero incuriosire ancora di più i nostri lettori. Inoltre, come è nato l’abbinamento titolo-traccia – domanda che tra l’altro potremmo ampliare a tutte le vostre uscite -? Quali aggettivi, sensazioni o semplici sostantivi abbinereste alla vostra musica, e ai brani di “Eremo” in particolare?

Facciamo un breve excursus sui titoli, ci splittiamo così ognuno descrive i “propri” luoghi. I titoli li inseriamo sempre a posteriori: quando un brano raggiunge una sua forma lasciamo che le sensazioni da esse scaturite ci suggeriscano il titolo.

Re di Pietra (Sir, chitarra): Il re di pietra è il Monviso, un macigno imponente di pietra di oltre 3800 metri (il più alto in provincia di Cuneo). Chiunque abbia avuto modo di avvicinarsi, o meglio ancora di arrivare sulla cima, si è reso immediatamente conto della maestosità della montagna. Salire sulla vetta è stata una delle esperienze più intense della mia vita.

Samos (Luca, batteria): I nomi che ho scelto rappresentano alcune delle tappe per me più segnanti del Cammino di Santiago, percorso che si dirama su più vie e più territori. Per arrivare al santuario di Samos bisogna prendere una deviazione, addentrandosi in un bosco che costeggia un lago. Qui vengono eseguiti i canti gregoriani, cercando di riprodurre fedelmente le suggestioni di una volta (solo voce, senza nessun strumento di alcun tipo). Il tutto viene amplificato tramite l’ambiente stesso del santuario. Un’esperienza sonora incredibile.

Passo di Terre Nere (Sir, chitarra): Il Passo di Terre Nere si trova sotto la cima della Tête de l’Homme in Valle Maira; si tratta di un traverso su una parete attrezzato con catene, ma con uno strapiombo di 30 metri sotto i piedi. Nell’attraversare quella lingua di roccia ho pensato seriamente che sarei morto (ora ci scherzo su), precipitando nel vallone sottostante. La cosa che più mi ha colpito di questa esperienza è stato il fatto che non ho avuto una sensazione di paura, ma di accettazione. Ho seriamente pensato che in fondo era un bel modo per andarsene. Non a caso, il testo è preso in prestito dall’ottava puntata de “I segreti di Twin Peaks” della terza stagione.

Hospitales (Luca, batteria): Hospitales è una tappa abbastanza faticosa del già faticoso Cammino Primitivo. Si dirama su quasi 30 km in cui non ci sono assolutamente servizi di alcun tipo (se non alla partenza e all’arrivo). I paesaggi e l’atmosfera di abbandono ti prendono senza pietà. Si chiama Hospitales perché l’unica cosa che trovi di tanto in tanto sono i ruderi dei vecchi ospedali di assistenza ai pellegrini. Davvero una delle tappe più intense di sempre.

Bric Costa Rossa (Sir, chitarra): Il Bric Costa Rossa è una delle due punte della Bisalta, un monte molto particolare che abbraccia la città di Cuneo. La peculiarità di questa montagna è che ha due punte e secondo alcune leggende locali viene anche chiamata “la montagna del diavolo”. A quanto dice una di queste leggende, è stato proprio il diavolo a tagliare la montagna per poter far passare la luce della luna, in modo che illuminasse la strada a un pastore. Il testo dice poco o nulla (sono circa quattro parole, forse tre) che esprimono l’assenza di caos, tipico invece dei centri cittadini.Costa Da Morte (Luca, batteria): È il nome della costa che si trova a nord della Galizia. Questo territorio e questa costa in particolare sono forse il miglior epilogo dopo che si cammina per quasi 1000 km. In generale, il cammino di Santiago ha origini molto antiche (pre-cristiane) e la fine “reale” pare sia proprio su questa costa, in particolare a Finisterre e Muxía. Si chiama Costa Da Morte perché è una delle zone marine più impervie della Terra (durante i secoli, sono numerose le testimonianze di naufragi). Nel disco fisico l’immagine del monolite si trova a Muxía, in memoria dell’incidente in cui una petroliera riversò quintali di petrolio nell’oceano, danneggiando un intero sistema marino e di conseguenza un intero villaggio che viveva di pesca. Abbiamo voluto mettere questo titolo proprio per simboleggiare anche questa collaborazione con Petrolio.

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“Eremo”. Cosa rappresenta per voi e per il vostro suono questa parola?
Luca: per noi personalmente Eremo è un luogo in cui starsene davvero tranquilli. Spesso come risultato (o “premio”) di una piccola fatica.  

Che disco è questo? Un disco di evasione, di rivoluzione della forma… un disco che significa anche riappropriazione dell’identità… che cosa?
Per noi questo disco e in generale il progetto è un qualcosa che facciamo per sentirci bene, staccare dalla follia dell’ordinario. Sicuramente sappiamo di non rispettare dei canoni… non tanto perché vogliamo essere più “fighi” ma semplicemente perché non ne siamo proprio capaci, dato che ascoltiamo veramente tantissima musica diversa; oltre a questo aggiungerei anche che il disco ha strutture libere perché per noi questo progetto è dare sfogo e poi forma a tutto ciò che c’è di istinto e, sparandola un po’ grossa, primordiale.

Tra l’altro sembra davvero che le voci e i suoni arrivino dal centro della Terra. E non è un caso se in copertina ci sono enormi radici vero?
La copertina è un’opera di land art da parte di Cristina Saimandi, Fa parte di una mostra a nome “Lændemic Art”, un percorso artistico inaugurato il 1° giugno 2019 che si sviluppa tra la Certosa di Pesio e il Pian delle Gorre, due luoghi simbolo del Parco naturale del Marguareis in provincia di Cuneo. Mentre stavamo cercando quale immagine utilizzare, un giorno Siro (il chitarrista) se ne viene con questa immagine a dir poco perfetta. È una foto modificati di un intreccio di rami che potete trovare lungo il sentiero segnato, Pensando a Eremo, sentieri e natura ci sembrava più che azzeccato.
 
Il Noise oggi che siamo obesi di indie-pop. Cosa vi porta in questa direzione?
Non so dirti se facciamo noise. Quello che però mi permetterei di dire è che ciò facciamo è innanzitutto onesto e genuino verso noi stessi. Abbiamo sempre voluto fare un po’ di testa nostra cercando di essere credibili. Sinceramente certa musica la vedo sempre un po’ preconfezionata o comunque come dire… consolatoria? Ecco a me personalmente interessa ascoltare e vedere musica che in qualche modo mi colpisca in faccia e nella pancia senza pietà. Capisco perché l’indie pop funzioni bene: melodie orecchiabili, look giusti e altro. Non penso sia un male, però solo quello ecco… direi anche no. Quindi sì… direi che siamo più nel lato noise proprio perché ci permette di sfogarci in pieno e sbattere in faccia a tutti le nostre viscere (o almeno questo ci pare di fare).

E quel gusto apocalittico che arriva dal video che cosa vuoi, rappresentare? La lotta… la solitudine…
Mi fa piacere che abbia suscitato questi pensieri in te. Lotta e solitudine sono due costanti delle nostre poco importanti esistenze, quindi sicuramente lottare ogni giorno per i propri ideali speso porta anche poi a rimanersene soli… più che soli aggiungerei un pochi ma buoni…

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Un disco in cui il suono non è narrativo ma è un impatto violento contro le abitudini. Non è un disco di abitudini questo… cosa ne pensate?
Ciao! Grazie per aver detto ciò… in effetti non è musica abitudinaria/standard (che cosa voglia mai dire ciò poi, ma comunque). Tendenzialmente io e il mio socio cerchiamo proprio questo e in qualche modo abbiamo trovato un nostro linguaggio. Il progetto era nato proprio per cercare di spingersi fuori dalla propria comfort zone… e credo che in piccola parte ci siamo riusciti.

I luoghi sono riferimenti molto importanti per la geografia di queste scritture non è vero? Sembra quasi che ci sia un percorso…
Dici bene! Il disco è diviso in 6 tracce. 3 titoli li ho scelti io (Luca il batteraio) e sono 3 tappe dei vari cammini di Santiago che ho fatto e che mi hanno lasciato un ricordo intenso. Gli altri 3 titoli invece sono i luoghi del chitarrista, appassionato anche lui di camminata ma più di montagne e cime. Abbiamo pensato di mettere questi titoli posteriormente e, dato che è una cosa che ci accomuna, abbiamo pensato fosse una buon idea sviluppare un piccolo concept sulla natura e sui luoghi dimenticati da Dio e (per fortuna) dall’uomo.

Invece la provincia, la città, il centro urbano… luoghi di contraddizione per il vostro “eremo”… quanto ha condizionato e contaminato la vostra scrittura?
Come detto in precedenza, ci siamo accorti ad un certo punto che accennare a qualche luogo a noi caro ci sembrava l’unica cosa da fare. In un modo o nell’altro il fatto di vivere nella “ridente Granda” sicuramente ha influito. Oltre alla natura e al Monviso sempre con il suo sguardo su di noi, la provincia di Cuneo personalmente mi ha sempre fatto sentire a casa anche e soprattutto per le varie band sparse per il territorio. Non so bene come, se non che l’unione di questi fattori sicuramente ha lasciato un certo segno nei nostri inconsci.

Anche i colori sono cose preziose per la discografia dei Nitritono. E non è un caso che i contorni siano alterati e le tonalità siano scure, quasi poco visibili…
Esattamente! Meglio fumoso che nitido e chiaro. Ho sempre apprezzato i colori sfumati rispetto a quelli nitidi (ad eccezione del nero, di cui personalmente non lo vedo neanche così negativo).

Ma “Eremo” significa isolamento o fuga?
Sicuramente isolamento ma fuga no… non si scappa da nessuna parte anzi! Alla fin fine siamo sempre ritornati a casa. Al massimo si combatte e poi di conseguenza si finisce soli. Chissà…

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1. Un saluto a voi Siro e Luca, benvenuti qui a Edp. Domanda a brucia pelo: cosa rappresenta per voi il duo Nitritono?

S: Ciao, un carissimo saluto a voi e grazie di cuore per lo spazio. Per me è uno spazio mentale indispensabile, in cui posso sfogarmi liberamente. Il momento in sala prove è uno stacco da tutto il resto, la nostra ora d’aria.

L: Un modo per non finire nel repartino.

2. Siro, non sono in molti i musicisti classici ad esprimersi al di fuori dei propri confini. Come ti sei avvicinato alla musica rock, anche estrema, e quando hai deciso di suonare anche la chitarra elettrica?

S: il mio percorso in realtà parte proprio con la musica rock. Quando ero piccolo mio padre accendeva la musica praticamente ogni momento della giornata (quando ha smesso di farlo lui, ho iniziato io), per cui sono cresciuto ascoltando rock, metal e cantautorato in dosi molto massicce. Quando ho deciso di imparare a suonare la chitarra, mi sono iscritto alle scuole medie ad indirizzo musicale (dove il percorso era di chitarra classica) con l’idea di “farmi le basi”, per poi passare alla chitarra elettrica. Strada facendo però ho trovato nella chitarra classica un mondo che mi piaceva sempre di più, questa passione è poi sfociata nel percorso in conservatorio e la coltivo tutt’ora.

3. Qual è la tua formula, Siro, per rendere nel formato a due?

S: Nel duo ho dovuto imparare a gestire con il giusto equilibrio tutta l’effettistica in pedaliera oltre ad equilibrare il suono di tre amplificatori, perché le sonorità che andavo a ricercare erano completamente diverse da un suono di chitarra “normale”. Nello specifico, uso due ampli da chitarra e uno da basso. Il segnale entra in una a/b box ed esce da una parte sul basso (passando solo per octaver e overdrive), l’altro passa in overdrive, delay, riverberi (la sala giochi per intenderci) e poi passa in un’altra a/b box che va nei due ampli da chitarra. La scelta l’ho fatta quando volevo cambiare la mia prima testata (un muletto da poco) e, comprata la seconda, per curiosità le ho usate entrambe. Così riesco a coprire molte frequenze in più perché gli ampli sono settati in modo diverso: quello da basso lavora sulle frequenze basse e i due da chitarra sono uno molto medioso, l’altro settato più sulle medio alte. Inoltre ribasso l'accordatura in La.

4. Per quanto riguarda il tuo approccio alla batteria, Luca, è cambiato qualcosa tra suonare in una band e in un duo? Oppure ti esprimi diversamente soltanto per via dei generi diversi?

L: Sinceramente non saprei dirti se cambio stile o meno. Quello che mi sento di dire è che cerco sempre di fare ciò che richiede il brano. A volte mi concedo qualche tecnicismo, ma con Siro in particolare non penso si senta la mancanza ad esempio del basso. Sicuro però quando mi sono trovato a suonare con altri ho sempre cercato di far esaltare le linee di basso o comunque la parte ritmica della chitarra.

5. Nel 2012 siete partiti con l'idea di sperimentare. Come siete arrivati al complesso linguaggio musicale del 2020? Evoluzione spontanea o risultato ricercato e voluto?

S: Suonare in duo è una lama a doppio taglio; da un lato si ha la fortuna di poter comunicare in modo molto diretto, dall’altro lato gli arrangiamenti devono essere studiati nello specifico. All’inizio abbiamo sperimentato molto senza essere troppo consapevoli di questo aspetto, poi con il tempo abbiamo iniziato a selezionare le soluzioni più funzionali e a scartare quelle che invece funzionavano meno. Alla fine è stata un'evoluzione che si è portata avanti per tentativi, fallimenti e risultati, guidata da un’idea di suono che volevamo raggiungere.

6. Entrambi avete passione per la natura cruda e selvaggia, in particolar modo per l'alta montagna. Su Fb, Siro, vedo spesso i resoconti fotografici delle tue escursioni. Quando è scaturita l'idea di realizzare un concept album in tema?

S: Sì, la montagna è da sempre stata una parte della mia vita. Da bambino arrampicavo, poi ho dovuto scegliere tra la chitarra classica e l’arrampicata; a parte una parentesi adolescenziale in cui a vincere è stata la pigrizia, la mia passione per gli spazi montani si è trasformata nelle grandi camminate e nel cercare cime nelle nostre montagne. L’idea del concept è nata da un’idea di Luca di accostare lo stato di pace e serenità che proviamo negli spazi naturali con quello che percepiamo in sala prove a scrivere nuovi pezzi. Sono due modalità diverse di chiuderci nella nostra idea di eremo.

7. Sono nati prima i brani, e poi avete scelto i titoli in base alle ambientazioni ispirate, oppure avevate bene in mente dei luoghi specifici da dipingere con le vostre note?

S: Sono nati sempre prima i pezzi e poi decidiamo i titoli in base al tipo di messaggio emotivo che ci lasciano. Per ora, non abbiamo mai provato a comporre musica “a tema”, ma potrebbe essere un’idea interessante.

L: Direi sicuramente prima la musica. Forse il fatto di avere questa passione ha dato sicuramente qualche fonte d’ispirazione in più. Qualcuno diceva che fare la musica solo con la musica è impossibile…

8. Enrico Cerrato, aka Petrolio, è un interessante artista elettronico noise e post-industrial vostro corregionale. Quando lo avete conosciuto e com'è nata l'idea di collaborare in questo album?

L: Conoscevo Petrolio per la sua attività negli Infection Code. Un giorno gli scrissi per cercare di organizzare una data insieme e mi propose il suo progetto solista che era ancora in fase embrionale. Da lì è nata un’amicizia musicale davvero bella e sono molto contento di come il suo progetto sia andato a gonfie vele fin da subito!

9. Di quest'ultima traccia con Petrolio è stato girato anche un videoclip in bianco e nero. Il brano "Costa da Morte" si riferisce a una delle zone marine più impervie della Terra, nel nord della Galizia, eppure il video sembra quasi un sunto dell'immaginario di tutto l'album: vi è sì il mare nero, alla fine, ma anche la foresta, il Monviso, gli stambecchi... Com'è stato girato il video?

S: In effetti il videoclip è un po’ una convergenza dell’idea che sta alla base del disco, riunisce i luoghi che sono descritti nelle varie tracce. Le riprese sono state fatte in (minima) parte da me nelle mie gite montane, da mia cugina (che si è occupata di tutto il montaggio e della regia) e da un suo amico. Siamo a dir poco entusiasti del risultato, è un prodotto che ci è piaciuto davvero tantissimo ed è perfettamente attinente allo spirito del disco!

10. Dalla Edison Box del precedente Panta Rei a una cordata di ben cinque etichette per il vostro Erisimo. Come siete arrivati a questa decisione? Ognuna di queste labels ha già avuto a che fare con duo chitarra-batteria, è un caso o le avete scelte proprio per questo?

L: Bè semplicemente le abbiamo scelte perché ascoltiamo molte delle band presenti nel loro catalogo. Quindi ci sembrava l’unica cosa giusta da fare.

11. L'artwork delle vostre copertine è ad opera di Cristina Saimandi, che poi è tua madre, Siro. Sei quindi figlio d'arte? Come ricordi la tua infanzia, in questo senso?

S: Si sono un figlio d’arte in effetti. Mia madre crea opere d’arte da sempre, per cui sono cresciuto vedendola al lavoro sin da quando ero più piccolo. La cosa interessante è che quando ero bambino era in una fase abbastanza monumentale e materica e lavorava spesso con grandi lamiere o grandi pannelli di legno. Quello che mi è rimasto più impresso è il lavoro che avevamo rinominato la “cozzata” (che ovviamente era intitolato diversamente); si trattava di una lamiera piuttosto grande con delle concrezioni materiche fatte di cozze annegate nella resina plastica. In più ho partecipato a molte mostre d’arte, sia quelle più grandi come la Biennale di Venezia, sia quelle più modeste in provincia (ovviamente la grandezza non corrisponde sempre alla qualità dei lavori esposti).

12. Viviamo ancora tutti in una realtà sospesa che ci tiene lontani dai palchi. Appena si può ripartire avete in mente di organizzare un tour promozionale dell'album? In estate, immagino, quando entrambi avete più tempo libero dal lavoro, visto che siete entrambi insegnanti.

S: Non vediamo l’ora e speriamo davvero tanto di poter tornare a fare qualche concerto. Come a tutti nel nostro ambiente, il palco ci manca tantissimo (sia suonarci, sia stare sotto).

L: L’amarezza per non aver potuto suonare questo disco in giro è tanta. Nel 2020 avremmo dovuto suonare davvero tanto in Italia e si stava iniziando ad aprire uno spiraglio per l’estero. Speriamo di poter fare qualcosa questa estate… intanto noi continuiamo a provare a programmare cose nuove.

13. In riferimento alla vostra professione, visto il continuo contatto con i giovani studenti, come ci descrivete gli adolescenti del nuovo millennio? Si raccontano tanti luoghi comuni sulle nuove generazioni, mi piacerebbe una testimonianza più diretta.

S: Le nuove generazioni sono molto promettenti. Come in qualsiasi generazione, ci sono ragazzi più brillanti e sensibili e altri molto meno; ma eravamo così noi alla loro età, come credo anche i nostri genitori. Personalmente mi trovo molto bene a lavorare con le nuove leve, trovo stimolante rapportarmi con loro e accompagnarli nel loro percorso di crescita. Come insegnante di chitarra poi ho la fortuna di poter fare lezione uno ad uno, avendo modo di conoscerli a fondo. In più la musica ha davvero il potere di veicolare emozioni molto forti. Per quanto riguarda i luoghi comuni, onestamente, lasciano il tempo che trovano. Da sempre le generazioni più stagionate guardano quelle più giovani con pregiudizio (“ai miei tempi…bla bla bla).

L: Io personalmente li vedo sicuramente un po’ spaesati. Detto ciò mi sento di dire anche che per certe cose forse sono un minimo più positivi rispetto alla mia generazione (nati nel ’90 circa). Non so se quelli della mia età si portano strascichi di quegli anni, ma noto che per certe cose i ragazzi comunque di oggi abbiano un pelo di positività in più. Inoltre se indirizzati in un certo modo, scoprono spesso cose di cui poi rimangono affascinati.

14. Siro, a livello musicale hai un'apertura mentale a 360 gradi. Come vedi la musica dei giovani d'oggi? E come ti sembrano predisposti alla musica suonata, questi stessi giovani?

S: Mi verrebbe da dire che i giovani d’oggi ascoltano musica di merda, ma a pensarci bene lo facevano già i miei compagni di classe quando avevo la loro età hahaha. A parte gli scherzi, oggi il problema più grosso nella diffusione della musica tra i ragazzi risiede nella totale mancanza di consapevolezza di ciò che ascoltano (non tutti, ma tantissimi). Mi spiego meglio, “ai miei tempi” (oddio, l’ho scritto davvero) ascoltare un certo tipo di musica era anche un segno di appartenenza ad un gruppo, per esempio ci si scannava tra truzzi e metallari. Ad oggi, questo senso di appartenenza non esiste più, per lo più sono onnivori (che sarebbe anche una cosa positiva, da un certo punto di vista), ma manca un po’ di chiarezza di fondo. Per farti un esempio, una volta in gita io e il mio collega di lettere (bassista dei Premarone) eravamo davvero stufi di quasi due ore di trap e abbiamo chiesto un attimo di tregua ai ragazzi, proponendogli un paio di brani da ascoltare. Ci siamo lanciati sui Black Sabbath, la prima cosa che ci era venuta in mente, e gli abbiamo solamente chiesto di arrivare alla fine della canzone prima di esprimere un giudizio. Risultato: quasi tutti hanno apprezzato tantissimo la nostra proposta, ma avevano difficoltà a descrivere le differenze tra un genere e l’altro.

L: Sul discorso della musica spesso quello che sento dire loro è che non sanno bene dove cercare perché c’è troppa roba. Una cosa utile da fare invece di lamentarsi a caso è almeno tentare di guidare all’ascolto e dire “hey... guarda che c’è anche questa roba qui”. Spesso molte persone non ascoltano semplicemente perché non sanno che esistono certe cose… è un discorso lunghissimo e ne avrei altre da dire, ma credo di aver già detto abbastanza.

Bene, allora direi che siamo arrivati alla fine. Vi lascio concludere con parole vostre, mentre restiamo tutti in trepidante attesa di ripartire... Grazie ancora, Siro e Luca, per il vostro contributo nei nostri spazi e tanta buona musica live, al di fuori dei luoghi isolati, però!

S: Grazie mille a te per lo spazio concesso, è sempre un piacere! Speriamo di poterci incontrare presto!

L: Grazie a te per le domande e per il tuo tempo! Speriamo proprio di vederci dal vivo al più presto

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ll noise nella sua accezione più didascalica. Quanto si rende sociale una forma del suono di questo tipo? Cosa c’è dietro una parete del suono che rispecchi la quotidianità secondo voi?

Per me personalmente credo che fare un certo tipo di musica sia una valvola di sfogo assolutamente necessaria. Nel sociale non saprei dirti, ma mi sento di dire che ogni volta che ci troviamo in saletta o facciamo concerti mentalmente mi sembra di stare meglio. Non so se sia “sociale”, ma sicuramente ci fa stare bene.

Mi piace molto la copertina. Ci racconta la vostra origine, la vostra terra o è un messaggio globale? Ci ricorda da dove veniamo?

Grazie mille! Diciamo che abbiamo pensato di usare questa opera di Land Art di Cristina Saimandi semplicemente perché rappresentava un po’ una nostra passione, cioè quella del camminare e dello stare in solitaria in mezzo alla natura. La scultura è un dittico fatto con dei rami che potete trovare nella Alpi cuneesi. Io personalmente non lo vedo come un messaggio globale, però ognuno vede un po’ quel che vuole vedere quindi è interessante pensare che in qualche modo tu abbia visto ciò.

E in generale per voi cosa sono le radici? Perché sono radici… o sbaglio?

Come detto prima si sono più dei rami, però assomigliano a delle radici. Secondo me la cosa importante è sentirsi vicino a un qualche cosa o qualcuno. Per quanto Cuneo non sia il top della movida o altro, ho un legame davvero intenso con il territorio e con le realtà musicali della zona. Peccando di terribile campanilismo, la band che sono uscite negli anni nella “ridente Granda” mi hanno sempre alleggerito il vivere qui e non fuggire altrove. So che è bene poco, ma in qualche modo sono completamente legato a questa realtà di provincia e non riesco ancora a sradicarmi.

In due momenti di questo disco, in particolare, la voce arriva, come suono, come corona di suono, come urlo antico… anche qui non posso non chiedervi a cosa si torna o a cosa è giusto guardare.

Siamo nati come duo strumentale, la voce è arrivata in un secondo momento e l’idea è sempre stata quella che fosse più un terzo strumento, piuttosto che il “classico” elemento vocale. In questo disco, la lontananza e l’inserimento della voce dentro gli strumenti vuole raffigurare una sorta di eco lontano, quasi una voce di una foresta o di uno spazio naturale

Ci sembra che in “Panta Rei” avete osato giocare di più con i colori, con le dinamiche. Qui siete decisamente più devoti ad un “Eremo”. Sbaglio?

La cosa che ci interessava in questo disco era fare qualcosa in cui la consolazione e il compromesso fossero completamente assenti. Dovremmo esserci riusciti (spero). Più avanti magari ci alleggeriremo… chissà!

Ed è inevitabile tornare al video di “Costa Da Morte”. Citandovi in qualche modo: anche nella solitudine c’è la quotidiana battaglia dell’individuo…

Sempre! Rubo una citazione di Kirk Windstein (mente dei Crowbar): “You don’tneed an enemy to fight a war”.

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Noi che parliamo di Rock ovviamente non possiamo non fermarci su questo disco con particolare trasporto. Prima di chiedervi conto di chiavi di lettura partiamo dal titolo: “Eremo”. Un luogo, uno stato d’animo… una presenza che vi salvano o che vi inquietano… un po’ come le sanzioni che mi arrivano da “Hospitales”…
Ciao e grazie per il commento! Sì esattamente così come hai detto tu. Abbiamo voluto chiamarlo Eremo perché ci sembrava la parola giusta per descrivere la nostra passione per il camminare in mezzo alla natura. Natura spesso incontaminata e “falsamente” ospitale/tranquilla.

 

E a proposito di questo brano, trovo che si è assai scollato dalla narrazione di tutto il disco. Qui ho forte la sensazione di ritmi tribali, quasi ritualistici… come fosse una sorta di preghiera… chissà quanto sono fuori pista e quanta storia c’è dietro…
Beh in particolare in quel pezzo non sei affatto fuori pista ecco. Hospitales è una delle tappe del cammino di Santiago (in particolare nel Camino Primitivo, sulle Asturie) e insomma…c’è del ritualistico ma senza esagerare ecco. E con esagerare intendo dire che sicuramente non siamo cattolici o altro ecco. Questi cammini in realtà esistevano prima di Cristo e della chiesa, quindi mi sentirei di dire più iniziatico, un po’ come una specie di pulizia ecco. Oppure tribale/ritualistico come hai detto giustamente tu

 

Per voi dunque cos’è il rock? Pensando più ad un modo di essere che ad una etichetta di genere…
Per me è staccare e dare sfogo a tutto ciò che la quotidianità e la realtà ci addossa. Inoltre unito a questo credo sia importante farlo nella maniera più genuina possibile, cercando di non montare troppo il personaggio o altro.

 

E quanto “Eremo” è un disco di rock?
Mah.. direi che è rock, metal, noise, psichedelia etc. Sono un po’ tutti i nostri ascolti e influenze incanalati nel disco cercano di avere ispirazione anche dagli avvenimenti del quotidiano. Quindi insomma.. credo sia rock di sicuro ecco!

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1. Il duo nasce nel 2012. Primo disco Panta Rei pubblicato nel 2017. Tante date e spettacoli da allora. La voglia di isolarsi immergendosi nella natura incontaminata, come avete dichiarato, rappresenta la conseguenza di quanto accaduto fino a qui o la causa che ha portato alla stesura di Eremo? In tal caso, c’è una relazione con il lockdown dei mesi scorsi?

 

Per noi passare dei momenti in solitudine è un qualcosa di necessario, una sorta di bisogno. Con questo non siamo persone asociali, anzi, ci piace andare ai concerti, fare serate con gli amici e conoscere altre persone quando siamo in trasferta. Almeno fin quando si poteva fare. Ma il richiamo della natura, di ciò che è incontaminato, lontano dal ritmo frenetico delle città è diventato negli anni un bisogno necessario. Nel silenzio riusciamo davvero a riallineare i pensieri, a ritrovare un po’ di pace. Con la nostra musica cerchiamo di mettere a nudo quelle che sono le nostre emozioni, cercando di essere il più possibile diretti e senza usare mezzi termini. Dopo la stesura dei pezzi (nati comunque dopo un periodo abbastanza difficile), ci siamo resi conto che esprimevano quel rapporto di ‘calma/caos’ molto affine a quella che proviamo quando ci isoliamo in spazi naturali lontani dal mondo. Da qua, l’idea di intitolare i brani con luoghi che sono a noi cari e il disco “Eremo”.

 

2. Quanta fatica costa pensare alle composizioni facendo leva, in fase creativa, unicamente su chitarra e batteria (parzialmente anche la voce), dovendo poi trovare una quadra più articolata e propositiva alla forma discografica interagendo con produttori che magari non hanno partecipato al concepimento dei brani? Restando coerenti con l’idea di fondo che Eremo non tradisce mai per tutta la sua durata, nemmeno nel featuring con Petrolio.

 

Suonare in duo ha sicuramente dei vantaggi per quanto riguarda l’intesa fra i musicisti, perché (se c’è la ‘chimica’) si viene a creare un dialogo biunivoco in cui ci si comprende a vicenda molto a fondo. Basta un piccolo gesto, un accenno per capire un attacco. Dall’altro lato però il duo presenta tutta una serie di problematiche legate all’arrangiamento dei brani perché il range di frequenze che andranno a coprire due strumenti sarà sempre inferiore a quello che si può fare in tre o più musicisti. Abbiamo lavorato davvero molto tempo per riuscire ad ottenere un sound che avesse le caratteristiche del duo, senza però lasciare ‘zone scoperte’. Questo lavoro non si è limitato alla strumentazione, ma proprio sugli arrangiamenti dei brani; dall’idea grezza del brano dobbiamo sempre trovare i giusti compromessi per far funzionare tutte le voci con equilibrio, a volte rinforzando, altre volte svuotando. Per questo disco siamo arrivati in studio con le idee molto chiare sul sound che volevamo ottenere in registrazione (ossia, il sound che avevamo già in sala prove). Non ci sono state difficoltà nel lavoro. Il mixaggio e il master li abbiamo affidati a Lucynine (Sergio Bertani) che ci segue sin dai primordi del progetto, per cui aveva ben chiaro il tipo di suono da ottenere come risultato finale.

 

3. Di solito quando ci si approccia ad ascolti dichiaratamente “Noise” bisogna destreggiarsi tra sample e “rumori” spesso derivanti da forzature che sul lungo termine risultano stucchevoli. Eremo invece “suona”. Avete dovuto cedere a compromessi o possiamo dire che la componente Noise, in questa produzione, non è poi così predominante?

Fondamentalmente non abbiamo mai suonato Noise allo stato puro. La componente rumoristica è un elemento da sempre presente nei nostri pezzi, ma non l’unica e neanche la predominante. Accanto ci sono venature doom\sludge, alcuni accenni di psichedelia, sicuramente una matrice metal (abbiamo entrambi un’adolescenza alle spalle passata a suon di Slayer e Pantera). Dopo anni, onestamente non siamo ancora riusciti a definire il nostro genere, forse il termine che più si avvicina è experimental – metal, che però è un calderone in cui confluisce davvero di tutto e di più.

 4. Passo Di Terre Nere, a mio avviso è il pezzo con il connotato “canzone” più marcato. Il riff è avvolgente e si ricorda con facilità. Curiosità personale: come è venuto fuori? Qual è stata l’ispirazione che ha portato alla scrittura?

Nato da un’improvvisazione, poi a poco a poco ha preso forma ed ecco il brano. Molto semplice ed istintivo se così possiamo dirlo. Tutti i nostri brani nascono improvvisando liberamente in sala prove, poi le idee che ci convincono maggiormente le registriamo e dalla registrazione grezza iniziamo a lavorare per dare una forma al pezzo, curarne i dettagli, gli arrangiamenti e, se decidiamo di inserirla, le parti vocali. “Passo di terre nere” è nata esattamente con questa prassi; dopo una sera di jam in sala prove. Questo brano ci ha dato un po’ di filo da torcere per la struttura, inizialmente durava quasi un quarto d’ora, ma risultava pedante e l’interesse nell’ascolto calava molto prima della fine. L’obiettivo era di cercare di mantenere la ripetizione mantrica della melodia, ma senza far mollare la tensione al brano. Speriamo di essere riusciti nell’intento.

 5. Eremo sembra diviso in due momenti ben distinti. Il primo con Re Di Pietra, Samos e Passo Di Terre Nere. Mentre il secondo composto dalle restanti tre tracce: Hospitales e il binomio Bric Costa Rossa e Costa Da Morte. È solo una suggestione? Se così non fosse, spiegateci come si legano tra loro i brani.

 In realtà “Eremo” è un disco in cui tutti i brani sono legati assieme. Come nei “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij, questo disco sono sei diapositive sonore di luoghi che hanno lasciato un segno dentro di noi. “Hospitales” rappresenta una sorta di sospensione nel disco, un brano fugace di pochi minuti e molto minimale. Per cui, probabilmente, questa impressione di un disco bipartito nasce proprio da questo dettaglio.

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Benvenuti sulla nostra webzine. Come vi siete conosciuti? Ci potete parlare del vostro progetto artistico?

Ciao, grazie a voi per lo spazio. Ci siamo conosciuti ben prima del 2012 tramite amicizie comuni, ma non avevamo mai avuto modo di stringere una vera e propria amicizia. Tutto è nato quasi per caso, un progetto secondario per entrambi che poi con il tempo è diventato quello principale. Il nostro progetto artistico è quello di cercare di creare spazi sonori che riescano a descrivere sensazioni e stati d’animo, cerchiamo di raggiungere un velato noumeno musicale emotivo.

Tra i tanti generi musicali perché la musica noise?

Il noise è una delle componenti della musica che facciamo, in realtà ci sono molte sfaccettature che spaziano dal doom allo sludge, un po’ di psichedelia e un po’ di sperimentazione. Onestamente, non siamo ancora riusciti a dare un genere a ciò che facciamo, forse quello che si avvicina di più è experimental – metal.

Chi sono i vostri miti musicali? Indicate anche 3 album che hanno segnato la vostra vita…

Senza dubbio gli Zu, il loro ‘Carboniferous’ ha letteralmente stravolto quella che era la nostra idea di far musica, dopo quel disco abbiamo scoperto orizzonti sonori impensabili. Tre album sono davvero pochissimi, ma potremmo inserire “In Utero” dei Nirvana (è stato il nostro primo acquisto per entrambi da pischelli), “Panopticon” degli Isis e “Ummagumma” dei Pink Floyd.

Come nasce una vostra canzone? Quale particolare ambiente create intorno a voi stessi?

Tutte le nostre canzoni (ad eccezione di un paio di esperimenti in “PantaRei”, che a posteriori non ci convincono fino in fondo) nascono improvvisando liberamente in sala prove. L’iter è di iniziare con jam session assolutamente libere, poi le idee che ci sembrano più convincenti le registriamo e le mettiamo da parte per dargli poi una struttura e curarne i dettagli. Ad un certo punto ‘sentiamo’ che il pezzo ha preso la sua ‘forma’ e curiamo i dettagli come gli attacchi, la voce, i suoni.

Se la vostra musica fosse una città contemporanea a quale assomiglierebbe? E se fosse un film o un libro?

Considerato che il disco lo abbiamo intitolato “Eremo” direi una qualunque città disabitata, o comunque con pochissimi abitanti. Se fosse un film potrebbe avvicinarsi alle realtà oniriche di Lynch (in “Passo di Terre Nere” abbiamo ‘preso in prestito’ una frase di una puntata della terza stagione di Twin Peaks), se fosse un libro probabilmente “L’Aleph” di Jorge Luis Borges, o “The Waste Land” di T.S. Eliot.

Abbiamo ascoltato il vostro disco “Eremo”. Come avete fatto ad elaborare un sound così marziale?

Il sound che abbiamo oggi è frutto di molti anni di lavoro e ricerca. Lavorare in due ha un grande vantaggio per l’intesa musicale perché si crea un rapporto molto stretto e biunivoco, mentre dal punto di vista del sound le insidie sono sempre dietro l’angolo perché resta sempre qualche ‘zona scoperta’. Negli anni il chitarrista ha iniziato a lavorare su più amplificatori, splittando il segnale della pedaliera in modo da poter coprire più frequenze possibile; ad ora suona con due testate da chitarra e una da basso assieme. Anche nella scrittura (nel nostro caso si tratta più di arrangiamento) dei pezzi bisogna saper scendere ai giusti compromessi tra idee e realizzazione, a volte è necessario rinforzare alcune voci, altre bisogna alleggerirne altre.

Quale è la differenza tra “Eremo” e i vostri lavori precedenti?

Con “Eremo” pensiamo di essere riusciti a portare avanti di un altro passo il nostro percorso evolutivo, arrivando forse a trovare un tipo di linguaggio che ci sembra essere personale e omogeneo al tempo stesso. E’ un disco nato in seno a una serie di problematiche non indifferenti (prime tra tutte due furti subiti in sala prove) per cui è il risultato di tantissime cose che sono state canalizzate nella musica.

Chi ha realizzato l’artwork di “Eremo”?

I nostri artwork sono tutti realizzati da Cristina Saimandi (che è la madre di Siro). Per il disco precedente era stato creato ad hoc dopo l’ascolto delle tracce, in questo caso invece si tratta di percorsi paralleli che hanno portato ad una meta comune. Si tratta di un lavoro di LandArt, situato in un bosco; il lavoro perfetto per il concetto del nostro disco.

Quale traccia preferite di “Eremo”?

Siamo molto soddisfatti della traccia di apertura “Re di Pietra” perché è un bel tappeto sonoro che ‘abbiamo cercato’ da molto tempo, ma la traccia a cui siamo più legati è certamente “Costa da Morte” sia per l’impatto sonoro, ma soprattutto per la preziosa collaborazione di Petrolio, carissimo amico nella vita e nella musica.

Come è collaborare con Petrolio? Da quando vi conoscete?

Abbiamo conosciuto Enrico in occasione di un concerto in cui abbiamo condiviso il palco assieme. Ci ha colpito tantissimo la sua musica davvero di fortissimo impatto emotivo. Lui è una persona meravigliosa, per cui abbiamo stretto amicizia molto in fretta. La collaborazione è stata molto spontanea, gli abbiamo inviato il disco dicendogli di scegliere una traccia e gli abbiamo lasciato carta bianca; il risultato ci ha entusiasmato, siamo davvero grati per il suo contributo.

Tendenza alla solitudine a quanto pare, solitudine nella natura incontaminata. Perché questa scelta?

La solitudine ricercata per noi è più una necessità che una scelta, è un momento di raccoglimento, di silenzio e di (qualche volta) pace. In un mondo frenetico e iperconnesso per noi rappresenta una ventata di ossigeno, tanto quanto la sala prove.

Avete aperto i concerti tra gli altri a Eyehategod, Cani Sciorrì, Ruggine, Titor, Flying disk, Ape Unit, The Glad Husband, Lleroy e Gerda. Quale di questi live è rimasto particolarmente impresso nella vostra memoria e perché?

Ogni concerto è una storia da raccontare, quando si ha la possibilità di condividere il palco con amici e con artisti che apprezzi molto le emozioni sono sempre fortissime.

Quanto l’emergenza coronavirus ha danneggiato la vostra attività live e come vi sentite come artisti in questo momento alquanto surreale?

Purtroppo, molto. Il disco sarebbe dovuto uscire nel mese di maggio e avevamo già fissato una decina di date fino ad inizio estate, ovviamente tutto è stato cancellato. Come artisti ci sentiamo abbastanza di merda di questo periodo alienante, come individui poco meno peggio. E’ davvero difficile trovare una direzione da prendere in un momento in cui tutto è assolutamente in bilico. Noi cerchiamo di andare avanti, stiamo scrivendo il prossimo disco (con molta calma). Prima o poi ne usciremo, di questo ne siamo certi.

Quale è il filo rosso che lega tutte le vostre canzoni?

Con la nostra musica cerchiamo di creare degli spazi sonori in cui far scorrere sensazioni emotive di diversa natura, dalla calma mantrica alla più gretta sfuriata di nervoso. Il filo rosso potrebbe essere di cercare di portare l’ascoltatore in territori emotivi aperti.

Quanto è importante sperimentare con la musica?

La sperimentazione è indispensabile. Per sperimentare intendiamo proprio il lavoro artigianale che di volta in volta ci porta a mettere in campo soluzioni diverse, talvolta funzionano, molto spesso sono clamorosi flop. Ma è proprio attraverso questo percorso di tentativi e fallimenti che stiamo creando, poco a poco (e con molta strada da fare), un linguaggio che ad oggi possiamo definire nostro, quantomeno in forma primordiale.

Fare arte è provocare emozioni, sensazioni. Potete commentare questa mia frase?

Alla base di ogni forma di arte deve esserci un trasporto emotivo, diversamente non crediamo si possa parlare di arte. Non bisogna limitarsi a pensare che debba suscitare emozioni solamente positivo, che l’arte sia solamente il ricovero per l’anima. Anzi, molto spesso l’artista apre vasi di Pandora pieni di inquietudini e irrequietezze. Non a caso preferiamo musica che ci scuota invece di musica rassicurante.

Per finire, salutate i nostri lettori e indicatemi qualche artista o band indipendente con il quale vorreste collaborare spiegando anche il perché…

Ci piacerebbe in futuro poter collaborare tra gli altri con Lucynine (aka Sergio Bertani) che per “Eremo” si è occupato (divinamente) di mix e master del disco. Lui è un polistrumentista con i controcoglioni (consiglio: in questo nefasto 2020 è uscito il suo ultimo disco “Amor Venenat”, merita!) ed è da tempo che c’è questa idea di collaborazione sospesa. Magari col prossimo disco, magari nel prossimo suo…chissà. Se siete arrivati a leggere fino qua, grazie di cuore da parte di noi Nitritono. Speriamo davvero di poterci incontrare sopra e sotto qualche palco, di poter tornare presto a farci stordire dalle masse di suono degli amplificatori, a stare ammassati tra sudore e birra. Un abbraccione virtuale, ma grande!