Intervista di Samuele Conficoni
SC: Il vostro nuovo album, A Man with a Gun Lives Here, mi pare un disco cupo, stratificato, con tanti momenti di speranza ma attraversato anche da inquietudini opache e sinistre.
SM: L’idea del disco è proprio quella, Samuele. Un’alternanza di storie cupe e sinistre, come suggerito dal titolo nonché dalla simbologia stessa, che lascia spazio a momenti più riflessivi e introversi come nel caso di Summer Clouds. Sono presenti parecchie citazioni letterarie all’interno dei brani, a cominciare da Jack London, la cui raccolta di scritti La Strada è stato un punto fermo per comprendere appieno l’idea del vagabondo-viaggiatore, l’hobo per l’appunto. Dall’anacronismo distopico di Prairie-dogs, ispirato alla narrativa “steampunk” di The Steam Man of the Prairies, si passa alle sfumature più oscure di Edgar Allan Poe e Truman Capote; di fatto, non è un caso se una delle tracce del disco si chiami proprio In Cold Blood (A Sangue Freddo), seppur non vi sia alcun riferimento narrativo o testuale con il celebre romanzo. L’album è stato concepito partendo dal simbolo che letteralmente significa A Man with a Gun Lives Here. Nel disco vi sono ben quattro murder ballads, ognuna delle quali riflette questi aspetti cruenti in modo totalmente autonomo. Se in Falling down, Henry la morte si palesa per via del rancore, in A Tiny Man Called Smith il nostro protagonista viene ucciso per via di un banale gioco di parole solo a causa dell’assonanza tra Smith (un comune cognome) e tinsmith (il lattoniere). Qui la collaborazione con Swanz the Lonely Cat, voce dei Dead Cat in a Bag, ci ha permesso di rendere ancor più surreale l’atmosfera finale del brano. Una curiosità. Quello che suona come un contrabbasso è in realtà una tanica di kerosene con un manico di scopa e una singola corda. Le altre due “ballads” sono chiaramente In Cold Blood, dove la noia di una stanca coppia di amanti viene sedata grazie all’omicidio di un uomo, e The Curse of Peak Hill, che narra le vicende di un giovane giocatore d’azzardo infatuatosi di una pericolosa femme fatale. In questo brano è stato ampio spazio allo slang “southern”, utilizzando modi di dire e espressioni tipiche degli stati del Sud. Chiude il tutto Bones Orchard, il mio personale omaggio alla figura indelebile del nonni.
SC: Il disco è arrangiato e prodotto in maniera estremamente meticolosa, quasi maniacale. Per quale motivo avete scelto questo sound? A quali altri artisti avete guardato e come i temi affrontati nei testi si integrano con questo sound?
SM: Abbiamo registrato il disco nel nostro piccolo studio (NostudioRec) esclusivamente su nastro per conferire al prodotto finale un suono più intenso e caldo. Di fatto, la scelta di stampare il vinile come supporto finale è stata pressoché immediata. Le sessioni di registrazioni sono andate avanti circa un annetto, una/due volta a settimana. Abbiamo passato serate a lavorare solo su una singola linea di chitarra, questo per dire come sia venuto fuori in modo del tutto naturale e spontaneo. Io arrivavo con delle mere tracce voce/chitarra acustica e da quelle basi abbiamo costruito tutti i suoni presenti nel disco. Credo che nessuno di noi si sia imposto un sound da seguire quanto piuttosto si sia calato perfettamente nella parte come un ottimo attore. Devi sapere che arriviamo tutti da esperienze di ascolto nonché di band completamente lontane e disparate; questo ha però permesso a tutti noi di creare qualcosa di singolare ma soprattutto di condiviso. Quando ho pensato a HO.BO, ho pensato prima di tutto alla condivisione e contaminazione di idee divergenti. Devo dire che ci siamo riusciti. Non ho intenzione di sbilanciarmi con riferimenti ad altri artisti, sarebbero davvero troppi. Una menzione speciale va a Carlo Barbagallo di Noja Recordings, il quale lavoro su mix e master è stato superlativo. Amalgamare la miriade di suoni che si intrecciano nel disco non è stato così semplice ma il risultato finale ha soddisfatto tutti appieno.
SC: Questo 2020 è un anno imprevedibile e assurdo. Come lo state vivendo? A Man with a Gun Lives Here è nato, suppongo, prima della pandemia. Un punto che mi preme approfondire è il rapporto che queste canzoni hanno con questa “nuova vita”, con la contemporaneità.
SM: Ti confermo che il disco è stato pensato e registrato in toto prima della pandemia, pochi mesi dopo l’uscita del primo EP (2/10). Ti assicuro che non vi è alcun influsso riguardante l’attuale situazione sanitaria. Resta il fatto che i brani son quasi sempre riflessioni e rifrazioni del proprio essere interiore, e quel che trasuda è semplicemente la nostra “contemporaneità”. Non c’è un legame testuale con l’attualità del momento a meno di non saperli cogliere tra le righe. Psalm è un brano difficile all’ascolto perché non va dritto, destabilizza volutamente. È stato concepito come un omaggio vocale agli holler field americani ma non è un vero e proprio blues. Si tratta piuttosto di un’interpretazione che anziché collocarci sul Delta del Mississippi trasporta nella nostra contemporaneità, le rive del fiume Cervo.
SC: Per un anno assurdo che arriva c’è un anno – e nel nostro caso un decennio – terminato da poco. Come avete vissuto gli Anni Dieci, gli anni del vostro debutto, gli anni che forse hanno più influenzato la vostra crescita artistica? Quali dischi, film, libri dello scorso decennio vi hanno colpito particolarmente?
SM: Chiedi troppo. È una domanda parecchio ampia per poterla affrontare in poche righe. Posso solo dirti che noi assorbiamo continuamente ascolti. Siamo curiosi e aperti ad ogni idea e genere musicale. Questo credo basti per offrire un’idea olistica sulle nostre idee al riguardo. Ti ringrazio, Samuele, è stato come sempre un vero piacere. E grazie ovviamente a Music Map per questa intervista.
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Partiamo dall’America. Un tempo era la terra promessa. In questo disco mi pare sia la terra d’origine, scura di storie non troppo pulite. Una terra da cui scappare o da cui ci si lascia benevolmente incastrare. Per voi cosa rappresenta l’America?
L’ America, a differenza di quella della Nannini, rappresenta la contraddizione. Prima i grandi stermini indiani, poi la schiavitù e il villaggio turistico più remunerativo per gli europei che sono riusciti a spremerla per bene. In mezzo le storie che ci interessano, il blues visto come esperimento sociale, un modo di comunicare sofferenza e rabbia nel miglior stile gentlement. Ripensando ai testi dei bluesman, erano viscerali e rappresentavano a chiare lettere la vita di merda che hanno dovuto subire, non che ora se la passino bene, i neri negli stati uniti mantenendo comunque una certa classe nel farlo. Usavano parole come rasoi ma il linguaggio musicale utilizzato permetteva di comunicarle con più leggerezza. C’è della speranza nella nostra America, prima però c’è ancora da combattere tra gli spettri.
Inevitabile non consumare alcool ascoltando questo disco. Sulle tracce di un ovest, alla controra… Tornando in Italia, tutto questo scenario in cosa lo ritrovate? In altre parole: come può nascere un disco simile dal Piemonte di un’Italia provinciale come la nostra?
Viviamo in un contesto di etichetta e gruppo di persone che ne ruotano attorno molto interessante. Quando il gruppo si è creato intorno a Sam, col passare del tempo si sono uniti al progetto musicisti che arrivavano da mondi lontanissimi dal folk o dal blues. Hardcore, sperimentazione, viaggi psichedelici, garage, drone: tutti questi linguaggi sono stati portati in seno da chi entrava nella band che però si sono messi al servizio del blues che possiamo vedere come cappello che filtra e smussa tutti gli estremi. Ecco come può nascere un disco così. Certo, potremmo anche dire che la strada che divide casa di Sam dalla saletta è un lungo rettilineo da 30 minuti tra risaie, cascine, nebbia e quindi l’immaginario è presto fatto, ma mentiremmo.
E la stessa domanda dovrei farla a Luca Andriolo che ho sempre pensato inevitabile dietro un suono simile. E davvero ce lo avete messo dentro. Inevitabile…vero?
Eh abbastanza. Abbiamo avuto la fortuna di suonare con lui, abbiamo condiviso un bel po’ di ascolti e qualche amicizia in comune, ci interessava molto confrontarci con Luca, che conosce molto bene il giro folk-blues italiano. È venuto una domenica in saletta e ha tirato fuori tutte le figate che ha messo sul pezzo, le cose si sono incastrate subito.
Un disco che potrebbe fare da sfondo ai romanzi di Steinbeck o al grande Capote che citate a sangue freddo. Come citate Edgar Allan Poe che non a caso vive e vegeta in quel tempo, quei luoghi, quell’America. La letteratura in generale quanto peso ha nel vostro suono?
All’interno della band ci sono dei lettori con generi preferiti differenti, scrittori che alcuni adorano e altri mal sopportano, c’è però una visione di insieme quando si suona con HO.BO: l’immaginario della Beat Generation, di London, ma anche di Fante che è una lettura molto condivisa. Vista la domanda, che ci interessa e incuriosisce molto, nel suono si possono sentire anche altri riferimenti, certa letteratura italiana del dopoguerra, i russi ma anche Ratman. Cerchiamo di creare un suono sincero, dentro ci stanno mille riferimenti.
E parliamone di questo suono. Come l’avete costruito, dove l’avete ripreso… ma soprattutto come? Perché davvero non è un disco figlio di questo tempo e di questa Italia…
Il suono è stato costruito in “studio”, usiamo le virgolette perché il disco è stato tutto registrato e mixato nella nostra saletta, con il prezioso e indispensabile aiuto di Carlo Barbagallo in fase di mix. È stato un anno di deliri di cavi, nastri, microfoni volanti, un fiume di sigarette e sbronfi, pizze sulle tastiere… Ci siamo messi a disposizione dei pezzi o almeno ci abbiamo provato. Un contributo al suono del disco è stato l’ingresso nel gruppo di Marco, è entrato in punta di piedi e ha spostato la bussola per tutti; la direzione era quella gusta, quindi abbiamo cercato di seguirla. Sui credits c’è scritto che è stato registrato al Nostudiorec che non è altro che lo studio di tutti quelli che si avvicinano a Kono Dischi. Volevamo uno studio per farci le robe come piaceva a noi e con gli anni ce lo siamo costruito, può sembrare banale ma per noi significa moltissimo. Visto che hai chiuso la domanda con una osservazione volevamo rigirartela: perché no?
Forse “Psalm” è il momento più blues del disco… mi ci sono fermato diverso tempo e non saprei da dove cominciare. Anima dannata o anima salmodiante in cerca di speranza e di salvezza?
“Psalm” è un pezzo molto particolare, sul disco l’abbiamo lasciato scarno, guidato dalla voce che ti porta dentro al blues, come dicevi tu, poi però l’abbiamo approcciato in modo diverso per suonarlo live, costruendo un suono collettivo, cercando comunque di mantenere il pezzo esattamente in linea con quello che c’è sul disco. In questa estate di approccio al live, abbiamo trovato il modo di fissare una parte del lavoro facendo proprio un video di questo brano e che presentiamo pubblicamente proprio oggi qui a Loudd… quindi ancora grazie. Anche questa uscita non sarebbe stata possibile senza la nostra etichetta alle spalle e all’occhio musicale di Lara Zacchi che riesce sempre a stupirci per la sua capacità di fissare immagini aderenti al nostro modo di fare (www.larazacchi.com). Ci segue fin dall’inizio, live, in saletta, nelle nostre case, non ha caso ci ha regalato lo scatto per la copertina. “Psalm”, è il pezzo che calza a pennello sull’idea di America che abbiamo.
Vorrei spingervi a fantasticare un poco. L’allegoria è dietro l’angolo ed impossibile non edulcorarla per parlare di oggi. Prendo spunto da Prende spunto da questa copertina: chi vive in questa casa? C’è il mare (credo), non mi sembra sia il Piemonte (se non erro)… ma poco importa in fondo.
Per ordine: se ti diciamo chi vive in quella casa non esiste più la copertina come concetto, quindi passiamo la mano, non c’è il mare e siamo in Piemonte…ma poco importa in fondo.
Tutto questo mi richiama immagini di paura, di distanze, immagini di ignoto e di un futuro carico di presagi bui…
Esattamente come la musica che cerchiamo di fare. Siamo in lotta, ognuno a modo suo, contro un modo di vivere la realtà che non ci rappresenta. Nel modo che abbiamo di suonare, scrivere, fare le copertine c’è sicuramente un malessere che viene espresso proprio perché stiamo lottando per sopravvivere decentemente al mondo che ci viene proposto.
A chiudere. Oggi siamo quasi dentro una “grande depressione”. Beh certamente con il dovuto rispetto per tutte le differenze, belle e brutte. Un disco come questo quanto deve al teatro di questi giorni? Lo denuncia, lo accoglie o se ne fa sconfiggere? Che poi brani come “Psalm” divengono protagonisti in questa visione…
Il “teatro” che ci accompagna in questi giorni non ci sembra abbia molte differenze con la situazione che abbiamo vissuto negli anni passati. Si sono amplificate metodologie che già erano presenti, diciamo che lo scorso anno è come se si fosse schiacciato un fuzz al nostro presente, maciullando tutti i processi, facendo uscire tutti i difetti che, nel nostro modo di pensare, già aleggiavano nelle nostre vite. Intorno a noi chiudono gli spazi e tutte quelle situazioni dove si poteva produrre cultura libera e liberamente, in tutto questo la politica gioca con gli spettri, rendendoli normalizzati all’occhio delle persone. In sostanza si ripresentano gli stessi ragionamenti di sempre, soltanto estremizzati dall’epidemia. Come HO.BO non ci resta che continuare a fare musica cercando di comunicare il nostro vissuto quotidiano.