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interviste JENA LU

Indipendente! Il primo aggettivo per descrivere questo disco è Indipendente, al di là della connotazione “Indie”, che sta sicuramente stretta a quest’opera. Lo spirito, semmai, riporta alla gloriosa epopea degli alfieri del “nuovo rock italiano” della prima metà degli anni 80, quando il cantautore/rocker abruzzese Jena Lu era troppo giovane per partecipare ad un movimento così importante, variegato ed eterogeneo, destinato a cambiare il modo di considerare il rock tricolore. Jena, il cui vero nome è Mirko, nasce il giorno in cui, ad Ostia, viene assassinato Pier Paolo Pasolini, ed è molto legato alla figura di PPP, lo abbiamo incontrato proprio in occasione dell’uscita di “Le Dita Nelle Costole” (I Dischi Del Minollo 2019) ed abbiamo fatto una chiacchierata con lui per avere le idee un po’ più chiare. I suoi gusti musicali spaziano tra il cantautorato nordamericano classico di Dylan, David Crosby (soprattutto, Neil Young), al rock degli anni 90, dai Sonic Youth ai Nirvana, fino a PJ Harvey. Dopo un lungo amore per gli indipendenti italiani della seconda generazione, dagli Afterhours ai Marlene Kunz, oggi Jena Lu è molto critico nei confronti del panorama italiano, salvando praticamente il solo Stefano “Edda” Rampoldi, nel quale asserisce di aver trovato una grande generosità e parecchie affinità artistiche e umane. In questo disco Mirko interpreta un brano dell’ex Ritmo Tribale, a testimoniare la loro reciproca stima. Lu, che ha iniziato vendendo la sua attrezzatura da Dj, per poter acquistare la prima chitarra elettrica, ci ha raccontato il percorso che lo ha portato alla realizzazione di questo lavoro, partendo dall’idea di pubblicare un semplice ep contenente soltanto 4 brani: “iniziando ad arrangiare L’ Esodo, io e Davide Grotta abbiamo deciso che l’approccio al lavoro sarebbe stato il più possibile naturale, senza ritocchi e senza trucchi, tant’è che in diversi brani abbiamo mantenuto la voce guida, trascinati da un approccio quasi punk. Oggi il problema principale rimane quello legato al management, cioè riuscire a trovare qualcuno che si occupi della gestione delle date live”.
Per quanto riguarda “Le Dita Nelle Costole”, il carattere intimista del lavoro non impedisce di utilizzare una serie di suoni, tutti appropriati e ricercati, spesso derivati da quel tipo di genialità Pop che parte dai Velvet Underground, passa per Brian Eno ed arriva agli Xtc e, più vicino a noi, alle sperimentazioni minimaliste di Jim O’Rourke. A questo disco hanno lavorato fondamentalmente in due: Jena, che oltre a scrivere tutti i brani, con l’eccezione di Spaziale (opera di Stefano “Edda” Rampoldi), canta e suona le chitarre e le percussioni (“occasionali e improvvisate” dice lui), e Davide Grotta, che ha suonato le tastiere, la batteria, le percussioni, il theremin ma, soprattutto, che ha condiviso con Jena gli arrangiamenti e la produzione. Gli unici interventi esterni sono del sassofonista Sabatino Matteucci e di Alessandro Marini, che ha suonato il basso in tutti i brani tranne che in Ieri e Oggi, nella quale il basso è stato suonato da Jena e in È tutto Bello, dove se ne occupa il Davide Grotta. La voce sprezzante e sguaiata della Jena si piega e si contorce in un notevole sforzo interpretativo, passando attraverso parecchi colori e approfittando di molte sfumature, senza preoccuparsi mai di sembrare accattivante. Altrettanto significative le strutture musicali, originali e dense di significato, sempre perfettamente legate al significato dei testi che, a loro volta, non sono mai leggeri, anche quando parlano di argomenti apparentemente frivoli. Particolarmente riuscito mi è sembrato il lavoro fatto in studio, dove prima di tutto si è mantenuto un equilibrio molto delicato tra suoni acustici, elettrici, elettronica e rumorismo. Tutti gli ingredienti sono stati dosati con grandissimo gusto, in modo da aggiungere potenza ai momenti più graffianti e arricchire di delicatezza le parti più intimiste. Mi sono particolarmente piaciute l’iniziale Barad dûr, con le sue atmosfere eighties, e le conclusive È Tutto Bello, che condensa un po’ tutte le caratteristiche stilistiche di Jena Lu e La Stanza, che invece mette in risalto le capacità compositive, riducendo l’accompagnamento a poco più che una chitarra acustica e un glockenspiel. Tutto il disco è però meritevole di un’attenzione particolare, perché ogni ascolto rivela nuovi piccoli segreti.

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