Certo, che per ritrovarsi a pisciare sulla soglia di casa di Massimo Volume e Offlaga Disco Pax ci vuole una discreta dose di coraggio, incoscienza e paraculaggine. Davvero in gamba il combo bresciano a sintetizzare suggestioni letterarie all'interno di uno spoken word alimentato da un "pessano" desiderio di altrove ("Venere dei treni") e funzionalmente sonorizzato da chiaroscurali didascalie post-rock
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Metti quattro ragazzi che coltivano diversi interessi che spaziano dalla musica (post-rock in particolare) alla poesia. Eccoci qui a raccontare del debutto di una formazione italica che coniuga dilatazioni sonore con testi recitati, riportando alla mente i Baise Noir di "Tre colpi secchi", album che purtroppo non ha mai ricevuto l'attenzione che meritava. "Equorea" propone cinque tracce in cui musica e testi sono inscindibili, prediligendo atmosfere eteree che vengono solo in alcuni frangenti increspate da incursioni rumorose ("Ode" e la conclusiva "Cieli grigi"). Un discreto punto di partenza, un disco da ascoltare con testa e cuore.
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"Esterina, i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube che a poco a poco in sé ti chiude [...] L’acqua è la forza che ti tempra, nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi: noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo come un’equorea creatura". Da questi versi di Montale nasce "Equorea", ep di debutto dei bresciani Di noi stessi e altri mondi, lavoro con grandi aspirazioni poetiche e letterarie. Un post-rock in grado di allargare gli orizzonti, che nasce dal mare, più precisamente dalla democratica linea che lo separa dal cielo. L'effetto recitazione di ogni spoken word che si sussegue da "Nuvole" in poi è assolutamente voluto, in un coraggioso tentativo di mettere in risalto la parola, perché come dice Nanni Moretti in "Palombella Rossa", le parole sono importanti. Ne viene fuori un disco che tenta di rendere melodia e testi il più omogenei possibili, in un lavoro di atmosfere e sensazioni studiate al dettaglio. Le canzoni potrebbero essere tranquillamente una raccolta di poesie. "Venere dei treni" probabilmente è uno dei più riusciti, dove musicalmente all'interno possiamo rintracciare varie eco dei Massimo Volume, ma anche piccoli rimandi all'immaginario urbano del primo Vasco Brondi. I contenuti invece si assestano nel ricchissimo universo emo, in cui affiora sempre quell' "intollerabile sensazione di sentirsi soli, l'insostenibile consapevolezza di essere finiti" che troviamo nelle strofe di "Cieli Grigi". Per la band di Sarezzo si tratta di un debutto assolutamente convincente, con una linea chiara e abbastanza originale. Le atmosfere post-rock, i muri sonori in chiusura di disco riescono a far rendere al meglio l'impronta poetico-letteraria e, diciamolo pure, "montaliana", che fa da leitmotiv in tutto il lavoro.
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Quando sembra che tutto sia perduto in ambito musicale, ecco che improvvisamente ti imbatti in quella novità che ti scuote dentro e ti fa riacquistare fiducia nella musica e nella vita stessa. È quello che mi è successo ascoltando il lavoro di questa band caratteristica, dal curioso nome "Di Noi Stessi e Di Altri Mondi": un gruppo per cui il termine “alternativo” vale ancora qualcosa e non è usato certamente a caso. Di noi Stessi e Di Altri Mondi è una band anomala in questi strani tempi: mi sento davvero in sintonia con la loro proposta musicale dato che, il loro, è un genere che mi piace molto e che sento mio per un sacco di motivi che non starò ad elencare; sta di fatto che questi ragazzi hanno davvero del talento genuino. Ma andiamo per ordine. DI Noi Stessi e di Altri Mondi nascono nel 2015 da un'idea di Marco Guerini (voce), Mattia Zanotti (chitarra, synth) e Thomas Botter (batteria), ai quali si è aggiunto poi Francesco Tavoldini (alle tastiere e synth). Il genere musicale proposto dal gruppo potrebbe essere assimilato ad una sorta di alternative post rock con la voce narrante in primo piano; tuttavia questa definizione potrebbe risultare riduttiva, in quanto nella proposta del quartetto ci sono troppi elementi da poter ingabbiare in una sola definizione. Ad un primo ascolto vengono in mente sicuramente i Massimo Volume per l'approccio di questi ragazzi alla materia musicale: ad una musica rarefatta e sognante si sposa un reading molto intelligente e poetico, visionario se vogliamo. Tuttavia se è vero – per loro stessa ammissione – che il genere trattato rimandi come associazione ai “padri indiscussi” del genere in Italia, è anche vero che la band ha una propria personalità che solo in parte può essere ricollegata ai bolognesi guidati da Emidio Clementi, in quanto il gruppo sembra puntare su un'introspezione molto più luminosa e meno dark, seppur sempre all'insegna dell'estrema qualità poetica e sonora. Andiamo a scoprire il contenuto del disco. "Nuvole" è il primo brano, ed è anche il singolo estratto. Bellissime chitarre in evidenza in un'atmosfera eterea e sognante, tra post rock e soffice psichedelia, nella quale fanno capolino le note malinconiche di un pianoforte. Su tutto questo si stagliano le interessanti meditazioni di Marco, mai banali, in bilico tra curiosa riflessione e introspezione ("appartengo ai passanti, alle persone che incontro, nell'andirivieni / nei miei viaggi di tutti i giorni / non vi appartengo, non mi appartenete"). "Neruda", subito dopo, è una traccia estremamente rarefatta e notturna, dominata da misteriosi synth: è il brano in cui maggiormente la chitarra mi ricorda quella di Egle Sommacal (ad ogni modo più nel periodo con gli Ulan Bator che non quello con i Massimo Volume, a onor del vero), ma è solo un breve rimando, perché il brano assume presto vita propria. È una traccia molto poetica e in un certo senso romantica: un vero e proprio racconto musicato. La terza traccia ,”Ode”, è dominata ancora una volta dalla poesia (“il suo viso dalla polvere pare quasi rasserenato / come il cielo che sopra di lei giace / e le fa da vestito / non c’è mai stato giorno più adatto in cui ad alta voce poter cantare / che la bellezza del mondo è una bellezza mortale”) ed ha diverse anime che si riflettono specularmente: momenti pacati affidati al pianoforte si alternano a improvvise asperità chitarristiche nel ritornello, per poi tramutarsi nuovamente in strofe rilassate – il tutto solcato da un lieve synth sullo sfondo. “Veneri dei treni”, successivamente, è pura introspezione struggente, in cui il pianoforte e la chitarra tessono trame emozionali all’unisono, mentre le capacità descrittive non vengono mai meno (“la vede salire ogni giorno in treno / e la rincorre fin dentro al vagone / la guarda parlare, ridere / osservare il grande mondo che veloce scorre lungo i bordi di quella freccia che attraversa cieli tersi”). “Cieli grigi” chiude questo breve viaggio sonoro in maniera leggermente malinconica, parlando di solitudine e meditazione: la musica traduce al meglio le osservazioni personali del testo (anche qua c’è un alternarsi di momenti pacati, ad altri più “taglienti”, senza sfociare nel superfluo). Sono molto felice che esista una band del genere: auguro a questi ragazzi tutto il meglio possibile e spero di ascoltarli presto anche dal vivo. Il loro genere affascina e culla, cura le ferite dell’anima ed è estremamente interessante: non è certamente cosa da poco al giorno d’oggi. Musica che sa emozionare per chi ama ancora farlo: fidatevi, non rimarrete delusi.
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Ci vogliono coraggio, passione e un filo di sana incoscienza per fare quello che hanno fatto i Di Noi Stessi E Altri Mondi, quartetto bresciano che ad un anno dall’omonimo ep d’esordio pubblica per Dischi Del Minollo le cinque tracce di “Equorea”, lavoro impreziosito dalla produzione artistica di Davide Lasala (Giorgieness). Certo, la scelta stilistica è quella: impossibile – lo sanno bene - affrancarsi dall’ombra lunghissima, ingombrante e scomoda dei Massimo Volume, e nemmeno a farlo apposta il timbro vocale di Marco Guerini è in alcuni frangenti (“Nuvole”, primo singolo estratto) molto simile a quello di Mimì. Ma poco importa, perché ci mettono anima e fiducia, offrendo tutto quanto di peculiare hanno da dare: le trame disegnate sono splendide nel ricamare quella sottile melanconia che ne veicola abilmente il messaggio; i testi procedono per immagini più che per narrazione, suggeriscono più che raccontare affidandosi a flash evocativi (“Venere Dei Treni”), rimanendo quasi nascosti fra le maglie di una scrittura di vibrante delicatezza (“Neruda”) che si concede il solo sfogo del crescendo finale nella conclusiva “Cieli Grigi”, restando altrove attendista, sorniona, guardinga. Sfumature impercettibili li separano da quel modello: inezie da addetti ai lavori, ma pur sempre indizi che connotano il tentativo di impiegare un linguaggio già noto per offrire sprazzi di sé in una propria personale versione. Piace la loro corsa dritta contro il muro del già sentito, a testa bassa, incuranti di ciò che era e ciò che è stato. Avevano una casa e un letto di fiori e ci hanno rinunciato, consapevoli. Ci vuole un bel fegato, ma bravi comunque.
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Di Noi Stessi E Altri Mondi è una band bresciana nata alla fine del 2015. Il gruppo, un quartetto formato da Marco Guerrini (voce), Mattia Zanotti (chitarra, synth), Thomas Botter (batteria) e Francesco Tavoldini (tastiere, synth) ha esordito con un EP omonimo pubblicato nella prima metà di Gennaio 2017. Il gruppo è dedito ad un post rock simile a quello dei Massimo Volume da cui riprendono l’uso dello spoken word al posto del cantato vero e proprio e la preferenza per un prodotto musicale che funzioni come viaggio nelle angosce personali più recondite. Le loro canzoni sono estenuanti tour de force, spesso con strutture rarefatte o psichedeliche e con svolgimento in crescendo, che citano nello stesso tempo le minisinfonie melodrammatiche e raffinate dei Genesis, le strutture decostruite degli Slint, le progressioni subliminali e maestose dei Godspeed You ! Black Emperor e le dinamiche glaciali e misteriose dei Mogwai. Il loro nuovo lavoro Equorea, un mini LP, uscito il 5 ottobre 2018 per la label I Dischi Del Minollo/Audioglobe riflette e amplia questo prassi , dando vita a una sintesi impeccabile fra sperimentazione (fornita dalla struttura del brano dove note e strumentazione sembrano vagare nel vuoto), impatto psicologico del sound (dato dall’orchestrazione stratificata) e ricerca introspettiva delle liriche (ogni parola acquista valore figurato e rimanda a una ben più complessa semiotica musicale). Come già detto i brani sono quasi sempre in crescendo: si aprono in maniera piana, quasi colloquiale, si sviluppano attraverso dinamiche sonore vibranti e quasi disperate per avvitarsi ed aprirsi in catarsi ultraterrene di intensità wagneriana. Gli arrangiamenti sono quanto di più fantasioso si possa immaginare. L’opera si apre con Nuvole, un tipico post rock con andamento circolare costruito su trepido tintinnio di chitarre, mentre nel successivo Neruda ad essere circolare è il susseguirsi di note mentre l’impalcatura principale, una spoken music su tema triste e desolato, rimane quasi immobile. Il successivo Ode è l’epitome dell’arte del gruppo: un deliquio pianistico che si innalza in un crescendo nevrotico di chitarre, puntellate da una ritmica serrata a sua volta contrappuntata da un filo di elettronica in sottofondo. In Venere Dei Treni in primo piano invece è il testo mentre le parti musicali rimangono in secondo piano quasi in sordina a mò di colonna sonora. Nella finale Cieli Grigi si assiste ad una sovrapposizione di piani stilistici differenti: post rock desertico (alla Giant Sand), tintinnio di chitarre (alla Red House Painters) e finale tempestoso (alla Explosions In The Sky). In soli 21 minuti di musica, la band bresciana riesce a coniare una forma armonica che su scala microscopica è dissonante ma su scala macroscopica è lineare e melodica, su scala microscopica è dinamica ma su scala macroscopica è statica. La produzione è di Davide Lasala.
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Il connubio tra musica e poesia, a uno studio non attento, potrebbe sembrare semplice e naturale. Ma chi è riuscito a metterlo in scena, con risultati più o meno interessanti, si conta sulle dita di una mano. I Di Noi Stessi E Di Altri Mondi cercano di inserirsi nel tracciato segnato nel nostro paese dai Massimo Volume e dagli Offlaga Disco Pax, cercando però di farlo nel proprio stile. L`Equorea creatura di Montale, nella poesia Falsetto, era Esterina che si tuffava da uno scoglio in mare. Per la band lombarda Equorea è più uno stato mentale, quel punto che divide il mare dal cielo che è l`unico posto di salvezza per l`uomo e le sue angosce. Musicalmente l`idea di partenza è il post-rock, che con le sue lunghe digressioni strumentali permette di lasciare ampio spazio alla recitazione dei versi. Ma il difficile è riuscire ad equilibrare musica e parole. Si corre il rischio che una delle due facce prenda la scena a discapito dell`altra. Ed in questo ambito che la band mette a segno un ottimo punto. L`equilibrio è quasi perfetto, in nessuno dei cinque brani si ha la sensazione di essere di fronte a un reading piuttosto che a una canzone. A detta della band testi e musica sono nati assieme e non si fa fatica a credergli. La musica aiuta i versi ad esaltarsi, creando un tappeto post-rock mai ridondante, ma si prende anche i propri spazi (Ode, Cieli grigi) trascendendo, a volte, quasi nella psichedelia. La voce, e i versi, non esasperano mai il loro essere in primo piano, andandosi a poggiare in maniera ottima sulla struttura musicale. Visto però il contesto, e l`obiettivo della band, il punto focale devono essere i testi. Il tema del disco che più resterà impresso nell`ascoltatore, perché lo scopo è quello: mettere in scena e dare una cornice musicale a qualcosa che solitamente ha vita propria. Marco Guerini mette a disposizione la sua voce, i suoi versi e le sue modeste aspirazioni letterarie (come si legge nella biografia della band) per provare a fare qualcosa che nel nostro Paese non è consuetudine. Le difficoltà dei ventenni di oggi, l`instabilità emotiva, le difficoltà a relazionarsi con gli altri. Questi i temi che che si susseguono nelle strofe composte da Guerini. L`Io che non riesce ad interfacciarsi col mondo, senza però obbligatoriamente chiudersi, senza entrare in circoli viziosi, ma anzi cercando di aprirsi al mondo alla ricerca di quel punto in cui cielo e mare si toccano e si può trovare il sollievo. La ricerca appunto dell`Equorea. Con la voglia di appartenere al mondo, ma non alle persone, come nell`iniziale Nuvole: Appartengo ai passanti / A le persone che incontro nell’andirivieni / Dei miei viaggi di tutti i giorni...E appartengo al mare / Lo specchio del mondo, il silenzioso custode / L`immenso. La conclusiva Cieli grigi ci porta a riflettere sulla solitudine, sensazione che sempre di più diventa problema in un mondo in cui si hanno migliaia di amici ma non si conosce nessuno veramente: Intolerabile sensazione del sentirsi soli / Insostenibile consapevolezza di essere finiti / Sopportare il peso di sogni enormi e oscuri / poter volare in questi cieli grigi. Questa sensazione si traduce anche in solitudine amorosa, laddove l`amore è visto come un possibile punto d`appoggio per affrontare in due la vita (Saper stare con un altro e sentirsi in due / Invece di due abissi da colmare), ma anche una solitudine che non ti permette di approcciarti con l`altro sesso, anche solo per scambiare due parole, come nella storia d`amore sui generis raccontata in Venere dei treni, in cui sogno e realtà si mischiano in un rapporto che mai vedrà la luce: Un giorno Paolo le parlerà, e le dirà, con tutto il suo amore / Mia Venere dei treni, / Appartieni a miei viaggi quotidiani / a quelli vissuti e quelli anche solo sognati / Alle fantasie che rendono meno pesanti minuti / Mia Venere, su questo treno Ti ho riconcorso come una canzone che ho scritto invano. E` un sogno che permette anche di esaltare degli ideali, che poi altro non sono che sogni da inseguire, ideali di libertà, di amore, di giustizia. Come Guerini recita in Ode: Non ho mai amato niente che non fosse libero / Mai ho ammirato nulla che non fosse amore / Ho dato la mia vita per un`ideale di libertà. Amore, sogno, ideali, solitudine. Tanti nomi per indicare stati d`animo conosciuti a tutti noi. Stati d`animo che portano la persona a rincorrere quel desiderio di stabilità, di appagamento e di serenità. A rincorrere l`Equorea.
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Accidenti, ci sentiamo un po’ in colpa nel… non promuovere “Equorea“. Perché in Italia, quello delle “parole recitate”, non è mai stato un filone generoso di esempi, quindi chi ci prova merita la nostra stima e il nostro incoraggiamento a prescindere. Sì, ci sono stati i Massimo Volume e gli Offlaga Disco Pax, ma poco altro di veramente utile e interessante. Ci spiace dunque dover parlare maluccio di questo album dei Di Noi Stessi E Di Altri Mondi, ma è un lavoro che ricalca spudoratamente le atmosfere (e finanche il cantato) di certe cose dei Massimo Volume. La voce di Marco Guerini è nello stile uguale-uguale a quella di Mimì Clementi, con il risultato che viene persino da chiedersi, durante l’ascolto, se non sia lui, quello più noto, a metterci l’ugola. Insomma, l’originalità non abita qui purtroppo. Meglio rispolverare “Lungo i bordi”.
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Peccato che la pressochè totale assenza di melodia vocale in questo disco dei bresciani Di noi stessi e altri mondi renda troppo indifferenziato ciò che invece avrebbe forse meritato maggiore varietà e diversificazione musicale. Un peccato almeno per me, intendiamoci, e per quelli come me che anche in musica preferiscono la ricchezza e la complessità piuttosto che l'uniformità e l'assenza di groove, elementi, questi, che quasi sempre diventano monotonia appena dopo il secondo brano. "Pronunciare la musica, suonare le parole" è il moto dei quattro lombardi (Mattia Zanotti: Chitarra e Synth , Francesco Tavoldini: Tastiere e Synth, Thomas Botter: Batteria, Marco Guerini: Voce) alla loro seconda esperienza discografica. Ma andando oltre il dilemma "Cantato o Parlato?", il CD dei Di noi stessi e altri mondi ("Equorea" è il titolo, composto da cinque brani, omogenei quanto a durata, per circa ventidue minuti di ascolto) non è certo privo di momenti di interesse: di per se, infatti, l'idea di mescolare la musica con la recitazione poetica e quindi di dare la massima rilevanza ai versi di cui si compongono le varie canzoni e di fare di ogni brano un unico e inscindibile poetico appare del tutto apprezzabile, soprattutto se si tiene conto del fatto che il nostro tempo non sembra concedere molti spazi al tipo di espressione artistica rappresentato dalla poesia. Pure interessanti appaiono le immaginifiche ed eteree atmosfere musicali post rock dense di incisivi e scintillanti arpeggi chitarristici e i testi, per lo più a carattere intimistico. Aspettiamo la prossima prova dei DNSeAM.