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press-review DANUBIO

 

bandiera_italia   ROCKIT  

Ci sono band che fai fatica ad assimilare, a capire e pure a digerire, almeno a un primo ascolto. Band a cui serve più tempo per carburare dentro di te, band che necessitano di un ascolto più approfondito, rilassato e attento. Ma questo non è proprio il caso dei Danubio. Infatti il quartetto piemontese realizza un omonimo album immediato e guizzante, tortuoso e spigoloso il giusto, trattandosi di post-rock, ma che non ha bisogno di istruzioni per l'uso. Infatti canzoni come "Dailan" o "Albicocca", una delle più belle dell'intero disco con una strofa di grande efficacia "ti ho regalato la mia parola migliore", sono ottime canzoni che si fanno apprezzare sin dal primo ascolto. Il problema per i ragazzi di Savigliano è che questa immediatezza, alla lunga, potrebbe rappresentare più una limitazione che una qualità positiva. I pezzi con la stessa rapidità con cui si ascoltano volentieri, si dimenticano in un battibaleno. Forse occorrerebbe, proprio come quelle band il cui ascolto è leggermente più ostico, ripensare un attimo l'arrangiamento, eliminando certe parti strumentali e assoli francamente pleonastici ed arrivare a colpire nel cuore delle cose. Siamo sicuri che i cuneesi abbiano la mira buona: del resto l'hanno già dimostrato con queste buone canzoni. Ne vogliamo di più, ne vogliamo di meglio!

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bandiera_italia  SHIVER

La rock band piemontese dei Danubio pubblica nel 2016 per la Vollmer Industries, Dreamingorilla Records e I Dischi Del Minollo il primo full lenght omonimo. Dieci tracce che sintetizzano il percorso artistico inaugurato dal precedente EP “Cleo” (2014) e consolidato negli anni successivi, tra busking e live performance a fianco di artisti come Il Teatro Degli Orrori, Punkreas, Maria Antonietta, Sick Tamburo e Nadàr Solo. Le sonorità frastagliate da una chitarra tagliente si vanno a mixare con una linea di basso voluminosa e ben assestata e all’occorrenza effettata nella giusta dose. I Danubio non rinunciano certo a momenti più melodici e puliti già presenti nella seconda traccia “L’Incendio Doloso di A.”, a testimonianza della versatilità della band di Cuneo che riesce a proporre tracce musicali dalle svariate combinazioni. Una voce che riesce ad essere ora aggressiva ora soft è la differenza in più che fa balzare il disco a livelli di apprezzabilità notevoli. Le atmosfere rese ancora più misteriose e quasi psichedeliche danno un’impronta originale ancora più marcata “Tre se conti me”, “Wojtek”. “Danubio”, è un disco dal sound scuro e caldo complice anche una buona sezione ritmica, dalle soluzioni sia tribali, che minimali, ma anche quasi sincopate e aritmiche “Nuoto Perpetuo”. Un lavoro completo in tutte le sue sfaccettature che testimonia una maturazione musicale notevole e una buona sinergia tra i ragazzi. Crediamo che questa sia la strada giusta per togliersi non poche soddisfazioni a patto che il percorso musicale della band continui ancora per molto tempo.

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bandiera_italia   ROCKLAB

Chi siamo noi, chissà quest’anno cosa andrà di moda” cantano i Baustelle in una delle loro nuove canzonette. Tra accuse e giubilo, tra la sponda del giovanilismo e lo zoccolo duro di chi reclama la fedeltà alla tradizione del bella canzone italiana, scorre il fiume di tutte quelle forme ibride di cantautorato nostrano alla ricerca di un’identità personale. Pare che il criterio discriminante più gettonato dai “critici” stia diventando quello tra vuoto e contenuto. Abbiamo tanto tempo libero, noi che scriviamo di musica e altro, oppure non dormiamo la notte per eccesso di militanza, vogliamo ascoltare tutto, così possiamo decidere se a prevalere è il vuoto oppure il contenuto. Alla ricerca del contenuto segue solitamente la decisione. Possiamo allora decidere se la musica è MORTA o se essi vivono, i generi, i musicisti, le canzoni, la tanto famigerata tradizione. Peccato solo che ognuno abbia una propria idea di cosa sia contenuto e di cosa sia tradizione. Proliferazione dei punti di vista, che annulla qualsiasi tentativo di costruire sistemi come quelli che vigevano in epoca di sfide sanremesi, direi almeno fino al 1990. Lì si che era tutto chiaro, e ascoltavamo ancora le cassettine. La cassettina era solitamente o di un vincitore di Sanremo oppure era una raccolta, così potevamo comunque ascoltare un po’ di tutto con buona pace dei vincitori e all’ombra dei tradizionalisti. I Danubio, gruppo italiano esordiente in quell’ambito fertilissimo che definirei (oramai) l’underground dell’underground, finirebbero certamente nella sezione “nuove proposte” di un’immaginaria edizione di un Sanremo dell’indie italiano. Se l’indie diventasse la tradizione tanto acclamata in un festival nazionalpopolare chi vedremmo sul palco? Marlene, Afterhours, Verdena, padri putativi del “genere” e poi tutti quei gruppi nati nell’alveo di una specie di rivoluzione musicale rispetto al “classico”. Diventerebbero allora essi stessi dei classici. E perché no. Non è forse questo il miglior destino per chi vuole lasciare un segno? Quindi sì, i Danubio, quattro ragazzi dalla provincia di Cuneo nati nel 2012, con una gavetta alle spalle fatta di palchi condivisi con Il Teatro degli Orrori, Punkreas, Sick Tamburo, Maria Antonietta, Nadàr Solo, entrerebbero con pieno diritto nella sezione artisti emergenti con questo primo full length che porta il loro nome, Danubio, uscito da poco per Vollmer Industries, Dreamingorilla Records e I Dischi Del Minollo con distribuzione Audioglobe. In nome del vecchio underground italiano il quartetto cuneese, in formazione indie rock classica, non ha paura di svelare immediatamente all’ascoltatore le influenze che danno corpo a un disco che possiede le sonorità morbide ma rumorose dei primi Verdena. “Dailan”, brano che apre l’album, ne è un esempio: tempi dispari, una buona cura del suono, e un’ambizione narrativa nei testi, a volte rarefatti come in “Albicocca”, a volte più compatti come in “Naìma”, pezzo che ricorda, anche nell’inflessione della voce, una vena poetica all’Amour Fou. In mezzo anche pezzi che sono un primo passo verso la definizione di uno stile più autonomo come in “Il 3 gennaio sulla spiaggia” o “L’incendio doloso di A”: anche qui le influenze dei loro ascolti possono essere riconoscibili ma non rovinano l’impressione generale di un disco d’esordio misurato e ben fatto. Influenze che sono giusto lì, dietro l’angolo, perché diciamolo: i testi dei mostri sacri sono belli ma se sei giovane e vuoi fare musica rock una delle soluzioni plausibili è anche far suonare le chitarre come nei dischi dei Verdena o scegliere forme compositive che rispecchiano meglio il linguaggio della tua generazione. Un passaggio necessario perché la musica possa evolvere verso forme ibride, se vogliamo, meno cristallizzate ma non per questo meno consistenti. In un certo senso non è che sia cambiato granché, è solo che dobbiamo scegliere cosa ascoltare in base al tempo che abbiamo. Mentre i vecchi cantautori diventano dei “classici” l’originalità è oggi spesso una battaglia persa, e lo sforzo a conseguirla va generalmente a discapito sia della forma che del contenuto. E la tradizione cos’è? E chi lo sa, però qualcuno la cerca ovunque, persino in Calcutta, in una linea retta che porterebbe indietro indietro, fino a De Gregori. L’ho letto da qualche parte. Mah, sarà. Intanto teniamo d’occhio i Danubio.

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bandiera_italia   INDIEPERCUI

Disco corrosivo che riempie l’etere di tanta sostanza sonora capace di rinfrancare gli animi più esigenti in un concentrato di rock sudato che fa da perno ad una produzione di tutto rispetto che cavalca l’esigenza di sputare in faccia alla realtà un significato profondo che ben si evince in questa stratificazione musicale, al di là di qualsivoglia forma di omologazione e riempiendo gli spazi con suoni che si affacciano ai primi Verdena, quelli di Solo un grande sasso per intenderci, fino a toccare vertici di apertura a band attuali come FASK in un sali scendi di sensazioni e sviluppi che attanagliano e conquistano, abbracciano e ripagano di tanto lavoro quasi ad ottenere nella naturalità del momento il guizzo giusto, la scintilla errante pronta a scoppiare e a far fuoco di nuovo, da Dailan fino a Dov’è la psicopolizia quando serve? passando per Nuoto perpetuo e Tre, se conti me per una prova che apre spazi e si confronta con una realtà tante volte troppo pesante per essere compresa, ma che in questo disco trova una via preziosa di fuga da questo stesso vivere e forse solo questo conta.

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bandiera_italia   KD COBAIN

Esordio discografico full length per i Danubio, band proveniente da Savigliano, composta da Alessandro Floris (batteria), Alessandro Leone (basso), Pietro Miraglio (chitarra), Alessandro Osella (chitarra e voce). Il quartetto cuneese, dopo aver avuto la fortuna di condividere il palco con artisti affermati della scena underground italiana come Il Teatro degli Orrori, Punkreas, Sick Tamburo, Maria Antonietta, Nadàr Solo e molti altri, e dopo aver pubblicato una demo e un Ep intitolato "Cleo", pubblica questo ddebutto lungo omonimo, dieci tracce tra alternative, noise rock, duro, diretto, nel quale la parte del leone la giocano le chitarre. L' opener "Dailan" ha un riff granitico e un senso della tensione degni dei migliori Marlene Kuntz, mentre il senso di drammaticità di "Wojtek" richiama alla mente i Ministri. Qua e là, come in "Nuoto Perpetuo", affiorano echi di Verdena, e cio è dovuto anche al timbro vocale di Alessandro Osella, ma il rischio del già sentito fortunatamente svanisce grazie a brani come "Quello Che Tutti Aspettano Da Tempo", capace di passare in pochi secondi da cavalcata post-grunge a ballad folk-psichedelica e ritorno. Per i Danubio un debutto decisamente interessante e di cui consigliamo l'ascolto.

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bandiera_italia   COLORI VIVACI MAGAZINE

I Danubio mostrano subito le unghie e i denti: fin dal primo brano del loro album d’esordio si capisce di che pasta sono fatti e la direzione che la loro musica prenderà. La traccia di apertura ci assale con un controtempo di chitarre e batteria e la successiva lascia spazio a un giro acido di basso distorto. I titoli (“Dailan” e “Wojtek”) appaiono ermetici e i testi mantengono la promessa. Il rock dei Danubio è energico e dissonante, pur nascondendo una vena melodica negli interstizi delle note: mai troppo invadente ma neanche mai latitante. Il risultato è piacevole, vigoroso e mai scontato, anche nei brani in cui la sezione ritmica prende qualche piccola pausa (“Naima”, “Albicocca” o “Il 3 gennaio sulla spiaggia”). Le lezioni del migliore rock alternative italiano appaiono ben assimilate: “Nuoto perpetuo” e “Quello che tutti aspettano da tempo” ne sono ottimi esempi, di fattura e influenze completamente diverse, ma entrambe efficaci. A tratti si sentono affiorare i Marlene kuntz, in altri momenti gli Afterhours di Hai paura del buio, ma nessuna influenza appare così evidente da risultare invadente. Forse le radici andrebbero ricercate ancora a monte, ossia nelle band d’oltreoceano che hanno ispirato, negli anni ’90, i capostipiti di certo rock nostrano, perché senza dubbio la musica dei Danubio ha origini in quel decennio d’oro, sebbene certe lievi influenze elettroniche ci riportino ai tempi attuali. Dietro questo disco c’è un buon lavoro di scrittura, arrangiamento e produzione. Nulla sembra lasciato al caso e il risultato finale ne trae indubbio beneficio. Nonostante ciò c’è spazio anche per un pizzico di sana follia, in “Dov’è la psicopolizia quando serve?”, traccia che chiude l’album ed è già un programma a partire dal titolo. La musica dei Danubio, insomma, non è immediata ma supera ugualmente a pieni voti l’esame già dai primi ascolti, almeno da parte dei rocker più incalliti.

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bandiera_italia   DISTOPIC

Primo disco sulla lunga distanza per i piemontesi Danubio, che con la loro proposta girano attorno a un rock alternativo di chiara matrice americana, qui declinato all’italiana per via dei testi. Il suono è estremamente derivativo, anche se va detto che la band tecnicamente ci sa fare, ha pieno possesso dei propri mezzi. Il vero punto debole sono le liriche, incapaci di destare l’attenzione dell’ascoltatore, con immagini descritte (spesso) male e in maniera superficiale o troppo autoreferenziali. Anche le linee melodiche non riescono a sostenere a dovere i ritornelli. Insomma, il suono è sufficiente ma va personalizzato, sulle liriche c’è da lavorare parecchio. Al momento la proposta dei Danubio non funziona.

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bandiera_italia   ASAP FANZINE

L’esordio dei Danubio è uno di quei dischi che ti sembra di aver già sentito, anche se non sai esattamente dove. O almeno lo saprei se avessi una memoria selettiva, ma visto che le cose mi vengono in mente quando vogliono loro mi devo accontentare di andare a braccio per descrivere quella strana sensazione di dejà vu che mi rimane impressa durante tutto l’ascolto del disco del quartetto cuneese.Il paragone più facile, forse perché quello più altolocato, è quello coi Verdena, ma in realtà sono solo il cantato ed i testi ad evocarlo. Nel primo caso non funziona male la voce di Alessandro Osella, anche se la spinta che dà ai ritornelli limpidi di Wojtek, uno dei pochi attimi luminosi di un album perlopiù virato su toni cupi, piacerebbe sentirla anche nei pezzi dove invece non riesce a far risaltare le parti robuste come dovrebbe, soprattutto in Albicocca dove anche la metrica fa storcere il naso: tutt’altro discorso per i testi, visto che più che criptici sembrano semplicemente incompleti, e pur lodando la scelta dell’italiano come lingua devo rimarcare che l’intenzione di comunicare qualcosa in brani come Nuoto perpetuo e Quello che tutti aspettano da tempo è fallita, mentre va meglio con l’alone surreale che viene creato da Il 3 gennaio sulla spiaggia.Musicalmente la prima cosa che mi viene in mente sono i misconosciuti Miavagadilania, che ascoltai anni fa e mi diedero la stessa impressione di malinconia associata ad un suono comunque intriso di distorsioni, ma come in quel caso al di là delle atmosfere non si riscontra né nella scrittura né nei suoni niente di nuovo. Pregevoli alcuni riff di chitarra, come quello che introduce le strofe iniziali di Nuoto perpetuo, interessanti gli incroci fra gli strumenti nella nervosa Tre, se conti me, con la voce ospite di Federico Chiavassa che evocando Godano crea però un paragone decisamente scomodo coi Marlene, curiosa e caso a sé Quello che tutti aspettano da tempo, un incrocio fra gli Il Pan del Diavolo ed i Soundgarden dei brani più sperimentali che funziona egregiamente, ma tutto questo non basta per fare un buon disco. L’impressione generale è di una band che deve ancora indirizzare bene il tiro, che spreca cartucce potenzialmente buone come la conclusiva Dov’è la psicopolizia quando serve?, non amalgamando bene il ritmo col cantato, e fatica a volte a trovare il modo di accendere la miccia, ad esempio lasciando scivolare l’iniziale Dailan in una piattezza in cui si percepisce a fatica lo stacco fra strofe e ritornelli, non aiutati da un finale energico ma senza pathos.Idee buone ma confuse insomma quelle dei Danubio, una band di cui si fatica a capire dove potrà portare l’evoluzione. La storia ci dirà come andrà avanti la loro carriera musicale, per ora ascoltare pezzi come la placida ed incisiva Naìma, graziata da ritornelli davvero efficaci, è un piacere che non basta a far venir voglia di lasciare il disco nel lettore troppo a lungo.