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press-review MULBO

 

bandiera_italia  BLOW UP

Fibrillazioni digitali, spasmi free-jazz ed incursioni avant-rock nel bagaglio dei torinesi Mulbö, quartetto strumentale che annovera tra le sue fila ex membri degli ahimè defunti Merce Vivo. Il vorticare e tambureggiare della fenomenale "Humbaba", il cupo palpitare elettronico di "Noun", i fraseggi Tortoise di "Kobe", le stilettate drum'n'bass di "Marno Edwin", l'assalto math-jazz di "Thalium Case", la brodaglia ambient di "Szen Ji", gli sfregi techno di "Xagalka" e le ossessioni tribali di "Reamut" compongono un album ottimamente articolato e ci presentano una band di sicuro spessore. 

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bandiera_italia  ROCKIT

I Mulbö propongono un interessante mix concettuale di post-rock/ambient, jazz ed elettronica. L'idea di per sé è abbastanza accattivante ma si concretizza in un lavoro che ha diversi angoli ancora da affinare. Questo primo album è davvero molto colorato e porta sulla schiena il peso di un evidente lavoro creativo, compositivo, sonoro e non ultimo di produzione ma che avrebbe dovuto essere guidato ancora un po' in direzione di un precipitato più succinto, sì, ma sicuramente più coerente e con più identità. La personalità non manca al gruppo e nemmeno all'album: le atmosfere caotiche, a tratti adrenaliniche e paradossalmente primordiali degli scorci elettronici si accostano con eleganza a momenti più distesi e rilassati, riflessivi e onirici, grazie a chitarre e sonorità surreali - ne è un valido esempio "Xagalka". Ma in quanto a identità il tutto appare ancora troppo amorfo. A questa scarsità di forma concorre, probabilmente, la tavolozza dei suoni, non sempre coerenti e, in alcuni passaggi, quasi goffi o che vanno a cadere in questo o quel cliché. Alcuni cambi avrebbero forse meritato sonorità, relativamente all'insieme, più organiche. Ma tornando a noi, durante l'ascolto si alternano momenti di noia a momenti di efficace creatività - da paura la sottile "Szen Ji". Alcune parti, tuttavia, sono eccessivamente ripetitive - è il caso di "Noun" che parte con un'affascinante introduzione per poi esaurirsi nella tantrica ripetizione di questa - e qui torniamo alla questione del suono: dal vivo, determinati passaggi, faranno sicuramente la loro signor figura potendo contare sull'impatto scenico del live e del suono vivo del concerto; ma su disco non sono abbastanza efficaci da intrattenere e finiscono col far sbuffare. L'album, nella sua interezza, sarebbe stato più affascinante se più condensato; queste 8 tracce strumentali non sempre colpiscono nel segno e 35 minuti sono un po' troppi per star dietro agli avviluppamenti e alle distensioni oniriche dei Mulbö. Un disco - o un ep - più corto sarebbe stato decisamente più comunicativo poiché questo - che comunque ha veramente molto da dire - alle volte stanca, alle volte il tutto non suona come un oggetto unico ma ci sono diverse, sottili, sbavature che si potrebbero eliminare. In conclusione, questo s/t è un lavoro che merita attenzione per la particolarità della proposta che lancia; e la stessa grande attenzione la aspettiamo dai Mulbö col prossimo lavoro.

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bandiera_italia  INDIE-ZONE

Un viaggio introspettivo claustrofobico e allucinato è quello che promettono i torinesi Mulbö a partire dall’artwork del loro album omonimo di debutto. I mezzi necessari a questo tour nell’inconscio ce li mettono loro, pronti a guidarvi a cavallo delle loro improvvisazioni free jazz, facendovi deragliare sopra ferrovie industrial e elettroniche, trovando coincidenze puntuali fra noise e psichedelia oscura, math e post-rock. Il paesaggio non sarà dei più rilassanti ma di sicuro non ci si annoia. Humbaba è un ottimo biglietto di presentazione. Ci mette quasi un minuto a deflagrare con la sezione ritmica ossessiva, marziale e tribale al tempo stesso, crea attesa poi si avviluppa attorno a un sax feroce che urla sul finale. Un ruolo non secondario lo gioca l’elettronica in questo disco, come in Noun, ritmo pulsante in odor di kraut rock o in Marno Edwin, dove inizialmente rimbomba solo una chitarra distorta. Si tratta solo di un’illusione. Improvvisamente entra una base d’n’b sferragliante, dai riverberi quasi acid house. In Kobe il basso, egemone in tutto il disco, disegna trame circolari per la prima metà del brano, le chitarre dapprima liquide si fanno sul finale solide, fino a divenire contundenti. Thallium Case martella gelida come certo post-punk, echi lontani di sax si avvicinano, si fanno largo a gomitate e restano in primo piano per poi sparire di nuovo. Szen Ji è una trappola dolce, field recording dal sentore orientaleggiante, pioggia che cade e calma solo apparente, pronta ad disintegrarsi. Previsione che facilmente si avvera in Xagalka, incubo glitch che si sviluppa in angoscia pura, noise a la Death Valley 69, e che letteralmente evapora. Chiude Reamut, un accenno punk funk e chitarre gonfie, finalmente in grado di prendere il sopravvento per poi esser lasciate libere di impazzire, sempre sorrette da una sezione ritmica enfatica e primordiale. In 35 minuti, divisi in otto tracce scaturite da lunghe jam session, i Mulbö esplorano territori inquietanti. Creano e fanno esplodere tensione e caos. Ci guidano fra schegge diverse di suoni violenti, supportati a volte da rimti concentrici che improvvisamente si spezzano per dare nuova forma al buio. Se cercate la “forma canzone” non è l’album che volete ascoltare. Se vi attraggono i paesaggi sonori astratti, sperimentali, pericolosi, allora non dovete fare altro che rivolgervi ai Dischi del Minollo, etichetta abruzzese per la quale esce questo notevolissimo disco di debutto.

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bandiera_italia   DISTORSIONI

Otto segmenti rumoristico/elettronici che concatenati uno all’altro formano una suite esclusivamente strumentale di oltre trentacinque minuti che non passa inascoltata, ecco quello che ci propone Mulbö, quartetto torinese, dalle belle ambizioni che, almeno in questa prima prova, non vanno certo disattese. Il progetto è compiuto e diviso tra cacofonie concrete e ritmi più sostenuti e persino “danzerecci”. Humbaba, che apre l’album, è sintomatica dello spirito del gruppo, ha risonanze anni ottanta, sia nei ritmi, sia nella chitarra à la Cure, ma ha anche momenti crudi e laceranti sottolineati da un sax lontano e straniante. Kobe vede invece il gioco di rimandi nel duello tra il basso e una chitarra ancora calati gioiosamente nei più oscuri anni ottanta. Altre cose sono più rarefatte, Szen Ji ha la liquidità e il ritmo pacato delle gocce di pioggia sull’asfalto, mentre Reamut, Marno Edwin, e Thallium Case (quest’ultima ricorda il Brian Eno rock del primo album), affondano le radici in una disco cibernetica e robotica ma allo stesso tempo caotica e tribale, quando invece Noun paga un piccolo debito ai Kraftwerk più melodici post anni settanta. Oltre agli anni ottanta più dark come riferimento principale evidenziato dal basso ossessivo che marchia a fuoco quasi tutti i brani, il sax strisciante ha echi di lacerazioni free e l’elettronica utilizzata da tutti e quattro i membri del gruppo conduce in territori spacenoise che spostano il baricentro verso ambiti esplorati dai pionieri della musica più cosmica e siderale. Un ottimo esordio destinato agli ascoltatori che non si accontentano di melodie semplici e orecchiabili.

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bandiera_italia   ROCK SHOCK

Esistono dischi che sono suonati con le mani e dischi che sono suonati anche con la mente : il progetto dei torinesi Mulbo fa parte della seconda schiera. Formatasi nel 2013, la band capeggiata da Claudio, Eros ed Alessandro (questi ultimi due ex Merce Vivo) ha allargato in seguito la formazione con l'ingresso di Fabio. Questo disco omonimo, uscito a dicembre dello scorso anno, è un labirinto musicale ed interiore, trentacinque minuti di follia, razionalità, claustrofobia. Un mix di sensazioni con svariate chiavi di lettura, un intenso viaggio nei meandri sconosciuti dell'animo.  In "Mulbo" tutto sembra animato : tra sovraincisioni e sfumature, gli strumenti prendono vita e costruiscono un flusso di coscienza che trasporta l'ascoltatore nel suo interno. Emblematica è la copertina del disco : un occhio che guarda un corpo umano e ne rileva i percorsi di vene e arterie. Un occhio che quindi vuole scavare nel profondo di noi stessi per provare a dare un significato all'irrazionale. Questa ricerca passa attraverso otto brani strumentali dai titoli enigmatici (non a caso). Già l'inizio del disco è palpitante : "Humbaba" si apre con rumori inquietanti, sinistri (che saranno il leit motiv a collante dall'inizio alla fine di "Mulbo"); un post rock tortoisiano ma spettrale, con basso claustrofobico, sax criptico e psichedelico, batteria tribale e un'elettronica che tende all'ignoto. Il risultato è un brano arcano ed avvincente. Il basso pulsante apre "Noun", con voci lontane filtrate e la batteria che accresce la tensione. L'elettronica contribuisce con un tocco esoterico, mentre il sax aumenta il senso di paranoia. "Kobe" allenta relativamente la tensione, con un avvincente duello tra gli strumenti. Sonorità drum'n'bass trovano posto in "Marno Edwin", pezzo martellante quanto caustico. "Thallium Case", per sax acido ed incalzante, basso ossessivo e batteria risoluta, è un incubo psichedelico a grande velocità. "Szen Ji", che apre a sensazioni orientali, è un angolo zen con strumenti in sottofondo. Il risultato è ovviamente un ambiente rilassante e spirituale, meno esoterico della "In der Garten Pharaos" dei Popol Vuh. "Xagalka" sconfina nell'ignoto, tra rumori cavernosi ed abbissali. Una psichedelia ambientale che per certi versi riprende sia il Mundus Subterraneus dei Lightwave, sia lo Zeit dei Tangerine Dream. Chiude l'album la paranoica "Reamut", tra ruggiti tribali, sax virulento, chitarra funky e feedback. L'ordine della prima parte vien piano piano spazzato via dal muro sonoro degli strumenti che si sovrappongono ormai senza controllo. Uno dei punti chiave di "Mulbo" è la dinamicità delle tracce; niente è lasciato al caso, tutto scorre e muta, il che rende bene la sensazione di movimento, di un vero e proprio percorso. Gli strumenti ricreano perfettamente sensazioni claustrofobiche e misteriose che appartengono all'irrazionale. I brani di "Mulbo" sono scie musicali che aiutano l'ascoltatore ad immergersi nel proprio io, a sviscerarne le paure, e a crcare una via per controllarle.

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bandiera_italia   IN YOUR EYES 'zine

L’arte della fuga si allontana spesso in luoghi inesplorati, nei cui echi distorti si percepisce una vaga idea, neppure troppo rispondente alla loro fonte originaria. Siamo in dolby surround con un altro Disco del Minollo, etichetta di qualità, che in veste Mulbö regala una massiccia dose di impro radicale poi riorganizzata. Sarebbe scorretto dirlo, quindi sarà solo un’opinione personale: questo progetto noise partorito e battezzato olisticamente da Eros Giuggia, suona meglio di un disco dei Fasti. Il primo motivo è palese, anche se non scontato: l’avventura sonora ci porta davvero a correre lontano dalla stasi quotidiana, soverchiando il terrore di rimanere incastrati. Nessun testo serve a complementare il ritmo, a volte tribale (Humbaba) e spesso atavico (Szen ji) che giunge in più apici concentrici. Se riascoltato bene più volte come prova del nove, ogni traccia sarà protagonista di ogni diverso ascolto (i transiti planetari nelle rispettive case possono dare un audace consiglio interpretativo). In secondo luogo, senza fare paragoni azzardati, essendo una costola di un gran gruppo, comunque Mulbö conserva la stessa e sola scintilla dell’universo Fasti, meno programmato e più immediato. Ci sono diverse potenziali hit: Noun è solo un preludio alla “catchy” Thallium case, ricordandoci i bei tempi e i ritmi alla One Dimensional Man. Il sax enuncia, teorizza e impone consigli per ogni situazione e assieme alla formazione originale (un altro sano e indubbio paragone ai Fasti in cui due bassi regnano) composta da Alessandro Baudino (basso I) e Fabio Dono (basso II, contrabbasso e synth) si ritrova in quello che la vera arte della fuga sa regalare : la gioia “macchiavellica” del canone. Il disco è in uscita digitale l’11 Dicembre. Bravi ragazzi, Buon lavoro, anche grazie alla presenza di Tino Paratore e del suo “Cerchio Perfetto”; mastering a cura, invece, di Gianluca Patrito.

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bandiera_italia  ROSA SELVAGGIA

Esordisce questo quartetto dell'area torinese, con trentacinque minuti di musica strumentale a cavallo tra rock, noise e jazz in un tripudio di programmata follia, come loro stessi la definiscono, ed una confezione da urlo. Follia ma con classe, sia ben chiaro: i ragazzi tengono il profilo basso, non prendendosi troppo sul serio e questo gli permette di tirare fuori un album semplice, immediato e trascinante, condito dalla giusta dose di ironia. Sotto tali auspici nascono le prime due tracce, "Humbaba" nella sua malinconia fatta di perenne transizione e "Noun" in un mantra vagamente industrial rock, che introducono "Kobe", dove i fraseggi di chitarra diventano preponderanti, ancora molto insistenti e ripetitivi, ma anche accattivanti. La quarta "Marno Edwin" confuta tutto ciò che è stato fatto finora sfiorando momenti techno (sic) e facendo da introduzione perfetta per quello che è il pezzo che traccia il solco, ossia "Thallium case" dove, esagerando un po', si può dire che i Nirvana più pacati incontrano il groove del sassofono, ed è forse un peccato che non ci sia una parte cantata a sovrapporsi. "Szen Ji" è un cocktail di elettronica, field recording e musica tribale, "Xagalka" è un inebriante pezzo glitch che evolve in noise rock, mentre la conclusiva "Reamut" è forse il pezzo più normale di tutto l'album, caotico rock/jazz.

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bandiera_italia   MUSIC MAP 

I Mulbö sono una giovane band torinese formatasi nel 2013 e giunta all’esordio discografico al termine del 2015. Il quartetto propone un disco omonimo di otto tracce strumentali, in cui emerge distintamente una forte attitudine alla sperimentazione. Il gruppo piemontese ha scritto un diario di un viaggio introspettivo di circa trentacinque minuti all’interno dell’io: in tal senso, non è casuale la scelta di una copertina che ritrae un occhio che osserva un corpo umano. E in musica si traduce lo sguardo al caos multiforme del nostro essere, alla ragione e all’istinto, alla follia e all’equilibrio, alla schizofrenia e alla lucidità. “Mulbö” è un disco dal sound corposo, un’opera in cui la tensione è incessante e il carattere evocativo molto marcato. “Humbaba” lo chiarisce subito, con una batteria martellante che entra nella pelle e nella testa, e un basso che costituisce lo scheletro d’un pezzo che si arricchisce degli squarci di chitarra e sax, mentre l’elettronica diventa il tappeto sonoro ideale per suggerire suggestioni psichedeliche e post rock. Questi schemi rappresentano il fattore accomunante per molte delle tracce in scaletta. In “Mulbö” funziona tutto in maniera esemplare: dal basso tachicardico di “Noun” alla leggerezza di “Kobe”, passando per la nervosa “Marno Edwin” e la frenetica “Thallium Case”. Anche quando cambiano direzione, spingendosi ad Oriente come in “Szen Ji”, la band non perde la bussola e continua a giustapporre piccoli gioielli, come l’acida e spettrale “Xagalka” che tende all’inconoscibile, e la paranoia funkeggiante di “Reamut”. “Mulbö” è uno dei lavori più belli e sorprendenti degli ultimi mesi: la band dimostra d’avere il piglio di chi ha già una grande esperienza e l’ispirazione di pochi, la capacità meramente compositiva fa il resto. Giù il cappello

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bandiera_italia   MUSIC COAST TO COAST 

I Mulbö sono una band interessantissima all’interno del panorama musicale italiano, formatasi nel 2013 dall’incontro artistico tra Alessandro, Eros, Claudio e Fabio. Il loro primo disco, Mulbö esce l’11 dicembre 2015 in edizione digitale con Dischi del Minollo. La musica di Mulbö, unicamente strumentale, sembra un quadro informale, materico, creato d’istinto. Una creazione frutto del flusso di sensazioni dei musicisti, che dà degli esiti musicali e immaginativi imprevedibili e mai banali. Mulbö è un lavoro sperimentale che ci regala un elettro-noise dalle mille sfumature e dai mille percorsi: ascoltare questo disco è un viaggio mentale e introspettivo. La prima traccia è Humbaba, un pezzo che sembra evocare sentimenti di ansia e angoscia, ma soprattutto è una musica di attesa. Suoni tribali, rabbia, potenti giri di basso, distorsioni si fondono in un risultato davvero particolarissimo. La seconda traccia, Noun, appare da subito più tribale, oscura e ossessiva, più materica e corporea. Kobe, invece, è calda e tranquilla, ma solo in apparenza, perché anche in questa canzone si percepisce qualcosa che non torna, un principio di inquietudine. Un pezzo davvero interessante e vivacissimo è Marno Edwin, che sembra un brano di proto dance hall primitiva. Il viaggio continua con Thallium Case: acido, distorto, con i soliti giri di basso tostissimi e un tocco magico di sax aggiunto a un ritmo che si fa via via sempre più martellante. Szen Ji è invece un unicum all’interno del lavoro, caratterizzato da un’atmosfera completamente diversa dal resto del disco. L’inizio ambient, meditativo e zen di questo brano ci trasporta nei pacifici giardini dell’Oriente buddista. Arriviamo alla penultima traccia di Mulbö, Xagalka. Questo brano è ambientato in un inquieto e oscuro mondo cybernetico, rappresentando un brusco passaggio rispetto alle sonorità e alle ambientazioni del pezzo precedente, e si conclude con un ripiegamento in se stesso. Mulbö può essere tante cose, come tutti i lavori più raffinati e complessi: forse è una storia di cui ogni brano è un capitolo, forse è la musica di un quadro, forse il racconto senza parole e trasfigurato delle emozioni di una vita. Ogni pezzo della tracklist nasconde delle emozioni, dei rimandi e non basterebbero fiumi di parole per descrivere gli universi che possiamo trovare in ogni canzone del disco. Dietro a ogni traccia ci sono infinite storie possibili, diversi inizi e altrettanti epiloghi che solo l’ascoltatore può scrivere.

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bandiera_italia   DISTOPIC

 Mulbö è una band principalmente strumentale. Musica per film, qualcuno potrebbe dire. Forse. Certamente musica nata con la pancia e cresciuta con la testa e, si spera, anche con le gambe.

In 35 minuti di musica i Mulbö propongono un sound molto derivativo, ma eseguito piuttosto bene, con una certa padronanza dei mezzi a disposizione e soprattutto seguendo un’idea di suono che rimanda la mente al jazz, al noise, al rock. Tanta voglia di sperimentare. Qua e là si cerca di sorprendere l’ascoltatore con dei cambi di registro (apprezzabili), come nel caso di “Marno Edwin”, e bisogna ammettere che l’alchimia funziona, rendendo l’ascolto (soprattutto nella seconda parte) estremamente piacevole. Insomma, manca un pizzico di originalità, ma ci piace lo studio del suono che sta alla base del compact, e questo contribuisce a raggiungere la sufficienza senza grossa fatica.