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bandiera_italia   LECCE CRONACA

Mi succede spesso di svegliarmi prima dell’alba con in testa un’immagine o un suono. Il fatto si ripete per sette, otto giorni poi si interrompe, ogni mattina la stessa immagine o la stessa musica.

In un caso, qualche anno fa, appena sveglio mi appariva il viso di un ragazzo come fosse proiettato sul muro della stanza. Mi sembrava di averlo già visto da qualche parte ma non riuscivo a ricordare dove; poi, un giorno accompagno mia madre al cimitero e tra le tante lapidi, su di una, un volto che mi sembra di conoscere… quello del ragazzo che mi appariva nel dormiveglia. Non riuscivo spiegarmi il fenomeno, ma sentii di dover fare qualcosa, all’epoca scrivevo poesie, così pensai di esorcizzare il tutto facendolo in versi: “Chiudo gli occhi nel buio / e trapasso con le mani / corpi d’aria fluttuanti / suoni ondulati / mi addolciscono il sonno / quando verso l’alba / da troppe volte ormai / un ragazzo già morto / torna a visitarmi”.

Poco più di un mese fa, stessa storia con una canzone. Verso le quattro del mattino mi sveglio con nelle orecchie un intro di chitarra e una melodia dolcissima, poi una voce calda e parole che si liberano nel silenzio come un flash nel buio: “La primavera insanguina i prati / tra cui cammino senza pensare / a quello che manca, / a ciò che è di troppo. / Lascio che il sole / mi trapassi da parte a parte. / Se rallento il respiro / tutto mi è più chiaro / e la vita è facile, / anche ad occhi aperti…”.

È come se si dovesse chiudere un cerchio… questo mi venne da pensare: Il piacevole tormentone mattutino altri non era che l’incipit di “Racconto di primavera”, una canzone degli Staré Město, band Emiliana nata tra Bologna e Ferrara nel 2011 che ha pubblicato un solo album nel 2014 prima di sciogliersi l’anno successivo.

A proposito del cerchio che doveva chiudersi, tutto partiva più o meno da quando gli Staré Město decisero di non continuare come gruppo e andare ognuno per la sua strada. Sarà stato il 2016, stavo facendo delle ricerche su un musicista salentino che aveva pubblicato un album con una piccola etichetta indipendente italiana dal nome un po’ strano (“I dischi del Minollo” n.d.r.), dal sito della label scorrendo i nomi degli artisti che facevano parte della scuderia la mia curiosità venne attirata da quel nome che sembrava appartenere più ad una band dell’est Europa che a una compagine di musicisti italiani. Scoprirò che Staré Město è il nome di un quartiere di Praga che si affaccia ad est del fiume Moldava, dove in antichità si raccoglievano pacificamente diverse etnie con culture e usanze differenti. Sempre dalla scheda del sito apprendo i nomi dei musicisti: Enrico Bongiovanni (chitarra, voce e autore dei testi), Tom “Delay” Lampronti (chitarra e cori), Giovanni “Fuzzbinder” Sassu (basso e cori), Ruggero Calabria (batteria).

Il nome del gruppo mi aveva affascinato, era tempo di ascoltare la loro musica. Cerco su youtube e trovo solo “Racconto di primavera”, il brano che al tempo aveva anticipato l’uscita dell’album che si chiamerà “Punto di fuga”. Sarà il primo di una lunghissima serie di ascolti: “Racconto di primavera” non è solo la canzone d’esordio di una giovane band deflagrata prima quasi di sbocciare, è molto di più. In poco meno di cinque minuti coesistono compressi sussulti post-punk che affondano radici nei tardi anni ottanta, innesti di catartico e liberatorio rock scivolato nel decennio successivo, testi scarni e poetici, e una voce, capace di liberare uno spleen pungente e dolciastro che si attacca addosso e come in un transfert ti fa rivivere flash-back tardo adolescenziali.

A quel punto dovevo avere lo scrigno, sicuramente custodiva altri tesori che mi avrebbero aiutato a delineare meglio la personalità degli Staré Město, ma inutilmente, ogni tentativo risultava vano nella ricerca del cd di “Punto di fuga”. Mi rimaneva quel singolo brano da ascoltare e farmi rimuginare di tanto in tanto sul perché una band così brillante avesse buttato alle ortiche quel talento che avevo percepito in quella canzone.

Poi qualche settimana fa mi sveglio per diversi giorni con l’incipit di “Racconto di primavera” nella testa (come già detto) e penso che è tempo di fare qualcosa, quello che avrei dovuto fare qualche anno fa: contattare direttamente i musicisti. Grazie alla tecnologia riesco in poco tempo a parlare con uno di loro e dopo qualche giorno il dischetto di plastica è nelle mie mani.

“Punto di fuga” è uno splendido diamante grezzo composto da otto brani. I quattro musicisti sono schierati nella formazione rock più classica (due chitarre, basso e batteria), i testi sono evocativi, delicati e graffianti in un alterno che stringe il cuore, i suoni s’impennano per poi placarsi ridisegnando un texture sonoro affascinante e decadente che calza plastico all’era che stiamo vivendo.

Apre il disco “Thalia”: i suoni combattono la ruggine del tempo, ci provano. Ma è come sbattere nel buio, tutto si confonde e l’unica arma resta la luminosità degli intenti. Echi di chitarre urticanti aprono il varco a una voce che attinge linfa a uno dei dischi più belli degli ’80 (“Il vile” dei Marlene Kuntz).

Di “Racconto di primavera” ho già detto, ma aggiungo che è un brano di ipnotica ed estatica bellezza.

“Menodizero” e “Riparo”, sono due brani quasi complementari. Rabbia, poesia e contaminazioni disseminate tra i solchi. Gighe di chitarre che regalano emozioni striscianti e la voce di Enrico Bongiovanni che martella con un pathos che se non l’ascolti non puoi capire.

“Cielo d’Africa” è la cover di un brano dei Diaframma di Federico Fiumani. Gli Staré Město omaggiano una delle band più importanti degli anni ’90 con una versione personalissima che non snatura l’originale.

“Le mani” e “Ultima cena” in un continuum di bellezza con arpeggi puliti e riverberi vocali. “Canzone della torre più alta” ispirata dall’omonimo testo di Rimbaud, suona come un monito post-rock tra decadenza e sconfitta, vibrante di una fascinazione romantica che probabilmente avrebbe intrigato il poeta…

“Punto di Fuga” è un album che merita un posto speciale negli archivi di ogni melomane rock. 

Il merito degli Staré Město va alla capacità di aver saputo filtrare sonorità new wave, post-punk e rock degli anni ’80 e ’90 attraverso una sensibilità più colta, delicata e disincantata degli anni zero.

Idealmente li collocherei vicino a band che si chiamano Diaframma, Massimo Volume, Marlene Kuntz, CCCP: padri di cui si può solo essere fieri di essere figli.

Recentemente ho contattato il chitarrista e cantante dei disciolti Staré Město e alla domanda perché la band si fosse sciolta proprio dopo la pubblicazione di un disco così importante per la scena musicale italiana, la sua risposta è stata questa: “Perché ci siamo sciolti? Domanda difficile… sebbene il divorzio sia stato conseziente, ognuno di noi penso ti darebbe una risposta diversa. Più in generale diciamo che forse avevamo perso quell’alchimia che ci aveva portato al primo disco. E sebbene avessimo già forse abbastanza inediti per farne un altro, da un punto di vista creativo ci eravamo un po’ arenati. Siamo comunque rimasti in buoni rapporti. Per quanto riguarda l’oggi, Ruggero Calabria suona nei “Mister MiGuardi” (gruppo musicale di Ferrara), Giovanni Sassu ha suonato per un breve periodo nei “Devocka” ma al momento credo sia fermo. Io e Tom Lampronti invece suoniamo insieme da qualche anno nei “Pale Blu Dot”, io alla chitarra mentre lui chitarra e voce. Tutti i membri (dei “Pale Blu Dot” tranne me che sono l’ultimo arrivato) provengono dagli Zeder, band di Ferrara che è stata attiva parecchi anni. Nelle settimane scorse abbiamo registrato un paio di pezzi che sono in corso di mixaggio, se tutto va bene a inizio ottobre facciamo uscire un singolo. Tom suona attualmente anche nei “Paradox”, e negli anni passati ha suonato il synth nella storica band wave “Go Flamingo!” e con i “Borken Up”.

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bandiera_italia    ROCKIT

Dall'hinterland emiliano alla città vecchia della capitale ceca, per un fascino oltrecortina, oltretempo, oltrespazio. Gli Staré Město scelgono di chiamarsi come la porzione di città praghese ad est del fiume Moldava, quella che anticamente raccoglieva il maggior numero di etnie e mescolava culture ed usanze differenti: allo stesso modo le esperienze dei quattro membri del gruppo, disposti nella formazione rock più classica (due chitarre, basso e batteria) si raccolgono sotto una coltre di testi evocativi e suoni all'occorrenza ruvidi, graffianti oppure improvvisamente nubilosi. Partendo da “Thalia”, traccia d'apertura, per me è già affinità elettiva; la strumentazione esplode insieme alle parole taglienti e rugginose, urlate e poi retratte con quel cantato-non-cantato tipico dei Massimo Volume, addolcite nella resa sfinita del ritornello melodico, recitante: “saremo sempre così, io e te...”. Il “Racconto Di Primavera” che segue non riesce a convincermi del suo ottimismo e, sebbene suoni più pop di qualsiasi altro pezzo presente sul disco, la sensazione che si percepisce è sempre quella di essere/avere una bandiera bianca sventolante a mezz'asta, il cielo azzurro piatto senza sfumature e tutt'intorno papaveri tristi. Poi abbiamo “Meno di Zero”, epitome di un ciclo di stagioni in cui tutto si crea, tutto si distrugge. Risorge “Riparo”, con energia, forse troppa, risultando spiazzante come un incendio in pieno inverno. Decadentismo e post rock. Ermetismo e alt rock. Romanticismo e new wave. In tutta onestà e senza strafare gli Staré Město riescono egregiamente anche a riproporre un pezzo poco noto dei Diaframma (“Cielo d'Africa”) ed è quasi una prova del nove, soprattutto perché le tre tracce a seguire non perdono di carattere e sostrato. Parlo degli arpeggi puliti e i riverberi di voce di “Le mani” e della “Canzone della torre più alta”, del suo testo ispirato dall'omonimo componimento di Rimbaud, a cui tra l'altro è dedicata. Parlo soprattutto di “Ultima Cena”, traccia di chiusura ed emblema sonoro di tutto il disco. Il parlato ritorna adesso che c'è il bisogno impellente di essere incisivi ed è importante che non si perda neanche una parola: un cerchio che si chiude nell'ineluttabilità degli eventi che tendono a risolversi stanchi e tumefatti, che rendono irriconoscibile il volto amato. La miseria di ogni ultimo tentativo. La claustrofobia dei gesti soliti. Tutti gli strumenti partecipano alla pena: il giro di basso iniziale, la batteria e le chitarre che si accendono e si spengono, pianissimo-fortissimo, trascinando note e accordi come si trascina un sentimento ormai ridotto a brandelli. Lo storico panorama italiano rock anni 80-90 influenza molto gli Staré Město ma non riesce ad intrappolarli in epoche già vissute, loro stessi le rammentano con bravura e soprattutto personalità. Le ragioni dell'animo e le ragioni di stile non competono nell'affermazione dell'una o dell'altra e in finale non c'è subordinazione: scrittura musicale e testuale sono due parti del tutto, un naturale connubio arricchito di suggestioni che fa di questo semplice disco d'esordio un gran bel disco d'esordio.

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bandiera_italia SENTIRE ASCOLTARE

Staré Město è un progetto nato tra Ferrara e Bologna grazie all’incontro di Enrico Bongiovanni, Giovanni “Fuzzbinder” Sassu, Tommaso “Delay” Lampronti e Ruggero Calabria; il disco d’esordio della formazione, uscito per la validissima label abruzzese I dischi del Minollo, è un bell’indie rock, con testi che evocano percezioni di rancore, spazi misurati ma lontani, effettati con riverbero decadente, ed echi à la C.S.I.. Ascoltando Punto di Fuga vengono in mente i primi Diaframma (quanto mai allusivi nella cover di Cielo d’Africa, ma anche in Riparo) o il narrativismo post punk di Massimo Volume e ManzOni. Quindi derivativo, ma bello perchè celebra ambienti di devozione e strutturalismo sbriciolato dalla Storia. Lirismo e scontento, in brani come Ultima cena e l’apocalittica Thalia, si fondono al diniego che sbrodola sempre nel racconto. Nei testi questa angustia pesa molto, quasi si sfigura con l’accetta per quanto è fitta. Affascinati sì dai primi anni Ottanta, il quartetto non gradisce tuttavia, di quella stagione, il chiarore di certe sonorità o di alcune pregevoli composizioni pop, preferendo colorarsi di una bruna inedia fra ritmi asmatici e rapidi. Quindi, più che un senso forte di contaminazione, voluto già dalla scelta del moniker (Staré Město è il distretto più antico e multietnico di Praga), quello che più domina è un discorso lanciato in aria per essere discusso, trascinato in terra per essere debitamente calpestato (Menodizero), recluso e di nuovo liberato. Questo, e non la proposta sonora che alla lunga logora, è l’asso nella manica del gruppo.

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bandiera_italia   KD COBAIN

Disco d'esordio per gli Staré Mesto formazione a metà tra Bologna e Ferrara composta da Enrico Bongiovanni (voce e chitarra), Tom “Delay” Lampronti (chitarra), Giovanni “Fuzzbinder” Sassu (basso) e Ruggero Calabria (batteria). L'obiettivo dichiarato della stessa band è quello di “riunire, in un crocevia sonoro eclettico e dinamico, atmosfere che spaziano dalla wave al post rock, dall’indie alla forma canzone melodica di tradizione italiana”, e a onor del vero, in “Punto Di Fuga” ci riescono alla grande, e l'iniziale “Thalia” è lì a dimostrarcelo: un (post)rock livido, teso e malinconico degno dei migliori Marlene Kuntz. O ancora l'estatica bellezza di “Racconto Di Primavera”, con Igor Tosi dei Devocka ai cori; oppure la meravigliosa rilettura di “Cielo D'Africa” dei Diaframma di Federico Fiumani, indubbiamente uno dei padri putativi della band. O, infine, “Canzone Della Torre Più Alta”, rilettura di una poesia di Arthur Rimbaud. In “Punto Di Fuga” lirismo, rumore e poesia si fondono per dar vita a una miscela ben riuscita per un esordio veramente intrigante.

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bandiera_italia  INTERSTELLA

Staré Město in lingua ceca significa “Città Vecchia”, ovvero un quartiere di Praga che nel XII secolo ospitava italiani, ebrei, tedeschi e borgognoni. Un nome, un programma, visto che questi ragazzi vogliono contaminare la propria musica con sonorità differenti così come un tempo genti diverse si sono mescolate tra loro in questo spaccato d’Europa. La band nasce nel 2011 tra Bologna e Ferrara, mettendosi subito in mostra grazie ad una serie di concerti e vincendo il Trofeo Wolf nel 2012, che gli ha permesso di aprire il concerto dei Diaframma, storica band fiorentina. Decidono infine di auto-produrre questo album, Punto di fuga, anticipato dai video dell’omonima canzone e da Racconto di Primavera, punto forte di questo lavoro. Sono 8 tracce, ognuna con la sua particolare andatura che avvalora la tesi della contaminazione varia precedentemente esposta. Si passa così dalla movimentata Riparo alla calma piatta di Le mani, fino alla controversa Thalia, caratterizzata sia da ritmi morbidi che da altri più forti ed energici. La voce, a tratti quasi gucciniana, si sposa perfettamente con le ritmiche orecchiabili, mai banali e ben costruite. È un album che fa della sperimentazione la sua arma vincente e che non vuole lasciare niente di intentato. Un amalgama diversificata di influenze varie che, se mal controllata, può rivelarsi un flop nella maggior parte dei casi, ma che stavolta centra l’obiettivo senza errori. Sono dei veri astri nascenti del panorama italiano e spero che questo sia per loro l’inizio di una fulgida carriera.

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bandiera_italia   ROCK GARAGE

Punto Di fuga è l’album d’esordio degli Staré Město, pubblicato dall’etichetta abbruzzese I Dischi Del Minollo. Il concetto di contaminazione proposto dalla band emiliana è evocato dal nome stesso del gruppo, difatti “Staré Město”, in lingua ceca, significa “città vecchia” che è il più antico distretto di Praga, dove nel XII secolo si stabilirono, gli uni accanto agli altri, italiani, ebrei, tedeschi e borgognoni. Il disco è composto da 8 tracce, registrate e mixate da Samboela (fonico de Le Luci della Centrale Elettrica in Canzoni Da Spiaggia Deturpata). Il gruppo nasce nel 2011 tra Bologna e Ferrara, facendosi notare attraverso una serie di convincenti esibizioni live culminate con l’apertura al Locomotiv Club di una delle date del Niente di serio tour dei Diaframma. A Federico Fiumani, mente e cuore della leggendaria band fiorentina, gli Staré Město hanno deciso di tributare un omaggio, incidendo, in quest’ occasione, Cielo d’Africa, uno dei pezzi meno noti del suo repertorio. Punto Di Fuga è un crocevia sonoro, un album eclettico e dinamico, con atmosfere che spaziano dalla wave al post-rock, dall’indie alla canzone d’autore italiana. L’incipit del disco è affidata alla apocalittica Thalia, strutturata da una ritmica di grande impatto, con ottimi passaggi dalle strofe, violente e rumorose, al ritornello melodico. La seconda traccia è Racconto Di Primavera, che vanta la partecipazione di Igor Tosi, cantante dei Devocka. Menodizero e Riparo, tra rabbia, poesia e variazioni di tempo mantengono alti gli standard del disco, offrendo ottimi spunti ed interessanti contaminazioni. Ben riuscito è il confronto con Fiumani in Cielo D’Africa. Il brano viene proposto in maniera fresca e personale senza snaturarne l’attitudine e il mood. Le Mani, pur suonata con grande coerenza, risulta una traccia bypassabile. La Canzone Della Torre Più Alta, rilettura della celebre poesia di Rimbaud è un brano dinamico e propositivo sia vocalmente che strumentalmente si candida tra i migliori del lotto. Massimo Volume? Le Luci Della Centrale Elettrica? Ultima Cena è una miscela esplosiva di vari elementi musicali tratti dalle band sopracitate ma riassemblati in maniera decisamente personale. Gli Staré Město riescono nell’arduo intento di riprendere le sonorità anni ’80 italiane di gruppi come CCCP e Diaframma, ormai accantonate dai più, riproponendole in chiave moderna.

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bandiera_italia   STORIA DELLA MUSICA

In qualsiasi città dell’Europa orientale vi troviate, vedrete che il borgo antico, a seconda delle leggere differenze nelle varie lingue slave, si chiama Staré Město. A Praga il distretto centrale fu un luogo di vera contaminazione: nel XII secolo vi si stabilirono, gli uni accanto agli altri, italiani, ebrei, tedeschi e borgognoni. Questa band, formata da Enrico Bongiovanni (voce e chitarra), Tom Lampronti (chitarra), Giovanni Sassu (basso) e Ruggero Calabria (batteria), che riconosce il proprio domicilio artistico tra Bologna e Ferrara, rappresenta la città vecchia della wave italiana, quella genuinamente ispirata e deferente all’opera dei Diaframma. Infatti è proprio alla band di Federico Fiumani che gli Staré Město hanno aperto un concerto durante il penultimo “Niente di serio tour”. Gli Staré Město aprono il loro disco d’esordio “Punto di fuga” con un pezzo in pieno stile Massimo Volume, “Thalia”: fiammanti schitarrate che lasciano il tempo a Bongiovanni di declamare un testo di ostentata realpolitik poetica: «I discorsi lasciati cadere / perché è così che ci conviene». L’impronta sonora cambia leggermente nella successiva “Racconto di primavera” (con Igor Tosi ai cori), in cui la band si fa mansueta e accondiscendente, con un brano tanto semplice quanto diretto, figlio della tradizione melodica italiana. Prima che la foga wave riesploda in “Riparo”, c’è la melodia malinconica di “Menodizero”, in cui ascoltiamo: «Ci sono frasi che hanno senso fino a quando non sono pronunciate / e parole ancora più pesanti da non lasciare incustodite. / Oggi noto una strana insistenza nelle cose / come se avessero il terrore di essere dimenticate». È a questo punto che arriva “Cielo d’Africa”, cover di un pezzo dimenticato dei Diaframma oggi contenuto ne “Le canzoni perdute” (2000). All’estrema amatorialità dell’originale di Fiumani, gli Staré Město preferiscono una composizione più equilibrata, allungando il brano con assoli di chitarra e rivestendo il tutto con un’aura di freddo siberiano. Dopo la calma straziante de “Le mani” (sinceramente cantata maluccio), è la volta di “Canzone della torre più alta” che, con un incipit altamente rockettaro, si apre ben presto ad una forma canzone più vicina agli standard italici. “Punto di fuga” conclude il suo percorso in “Ultima cena”, una coinvolgente reprise dell’incipit, ancora nello stile severo di Emidio Clementi: «Ho capito che non ti eri mai alzata / da quella stupida sedia». Coadiuvati in studio da Samboela (precedentemente a lavoro sul capolavoro Brondiano “Canzoni da spiaggia deturpata”), gli Staré Město hanno confezionato un disco molto bello, ed è come se intendessero ricevere personalmente il testimone da Federico Fiumani, qualora questo decidesse di farla finita con la musica: medesima passione per la bassa fedeltà, identica inclinazione al crossover tra punk e ballata rock.

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bandiera_italia   SHIVER

In qualsiasi città dell’Europa orientale vi troviate, vedrete che il borgo antico, a seconda delle leggere differenze nelle varie lingue slave, si chiama Staré Město. A Praga il distretto centrale fu un luogo di vera contaminazione: nel XII secolo vi si stabilirono, gli uni accanto agli altri, italiani, ebrei, tedeschi e borgognoni. Questa band, formata da Enrico Bongiovanni (voce e chitarra), Tom Lampronti (chitarra), Giovanni Sassu (basso) e Ruggero Calabria (batteria), che riconosce il proprio domicilio artistico tra Bologna e Ferrara, rappresenta la città vecchia della wave italiana, quella genuinamente ispirata e deferente all’opera dei Diaframma. Infatti è proprio alla band di Federico Fiumani che gli Staré Město hanno aperto un concerto durante il penultimo “Niente di serio tour”.

Gli Staré Město aprono il loro disco d’esordio “Punto di fuga” con un pezzo in pieno stile Massimo Volume, “Thalia”: fiammanti schitarrate che lasciano il tempo a Bongiovanni di declamare un testo di ostentata realpolitik poetica: «I discorsi lasciati cadere / perché è così che ci conviene». L’impronta sonora cambia leggermente nella successiva “Racconto di primavera” (con Igor Tosi ai cori), in cui la band si fa mansueta e accondiscendente, con un brano tanto semplice quanto diretto, figlio della tradizione melodica italiana. Prima che la foga wave riesploda in “Riparo”, c’è la melodia malinconica di “Menodizero”, in cui ascoltiamo: «Ci sono frasi che hanno senso fino a quando non sono pronunciate / e parole ancora più pesanti da non lasciare incustodite. / Oggi noto una strana insistenza nelle cose / come se avessero il terrore di essere dimenticate».

È a questo punto che arriva “Cielo d’Africa”, cover di un pezzo dimenticato dei Diaframma oggi contenuto ne “Le canzoni perdute” (2000). All’estrema amatorialità dell’originale di Fiumani, gli Staré Město preferiscono una composizione più equilibrata, allungando il brano con assoli di chitarra e rivestendo il tutto con un’aura di freddo siberiano. Dopo la calma straziante de “Le mani” (sinceramente cantata maluccio), è la volta di “Canzone della torre più alta” che, con un incipit altamente rockettaro, si apre ben presto ad una forma canzone più vicina agli standard italici. “Punto di fuga” conclude il suo percorso in “Ultima cena”, una coinvolgente reprise dell’incipit, ancora nello stile severo di Emidio Clementi: «Ho capito che non ti eri mai alzata / da quella stupida sedia».

Coadiuvati in studio da Samboela (precedentemente a lavoro sul capolavoro Brondiano “Canzoni da spiaggia deturpata”), gli Staré Město hanno confezionato un disco molto bello, ed è come se intendessero ricevere personalmente il testimone da Federico Fiumani, qualora questo decidesse di farla finita con la musica: medesima passione per la bassa fedeltà, identica inclinazione al crossover tra punk e ballata rock.

 

In qualsiasi città dell’Europa orientale vi troviate, vedrete che il borgo antico, a seconda delle leggere differenze nelle varie lingue slave, si chiama Staré Město. A Praga il distretto centrale fu un luogo di vera contaminazione: nel XII secolo vi si stabilirono, gli uni accanto agli altri, italiani, ebrei, tedeschi e borgognoni. Questa band, formata da Enrico Bongiovanni (voce e chitarra), Tom Lampronti (chitarra), Giovanni Sassu (basso) e Ruggero Calabria (batteria), che riconosce il proprio domicilio artistico tra Bologna e Ferrara, rappresenta la città vecchia della wave italiana, quella genuinamente ispirata e deferente all’opera dei Diaframma. Infatti è proprio alla band di Federico Fiumani che gli Staré Město hanno aperto un concerto durante il penultimo “Niente di serio tour”.

Gli Staré Město aprono il loro disco d’esordio “Punto di fuga” con un pezzo in pieno stile Massimo Volume, “Thalia”: fiammanti schitarrate che lasciano il tempo a Bongiovanni di declamare un testo di ostentata realpolitik poetica: «I discorsi lasciati cadere / perché è così che ci conviene». L’impronta sonora cambia leggermente nella successiva “Racconto di primavera” (con Igor Tosi ai cori), in cui la band si fa mansueta e accondiscendente, con un brano tanto semplice quanto diretto, figlio della tradizione melodica italiana. Prima che la foga wave riesploda in “Riparo”, c’è la melodia malinconica di “Menodizero”, in cui ascoltiamo: «Ci sono frasi che hanno senso fino a quando non sono pronunciate / e parole ancora più pesanti da non lasciare incustodite. / Oggi noto una strana insistenza nelle cose / come se avessero il terrore di essere dimenticate».

È a questo punto che arriva “Cielo d’Africa”, cover di un pezzo dimenticato dei Diaframma oggi contenuto ne “Le canzoni perdute” (2000). All’estrema amatorialità dell’originale di Fiumani, gli Staré Město preferiscono una composizione più equilibrata, allungando il brano con assoli di chitarra e rivestendo il tutto con un’aura di freddo siberiano. Dopo la calma straziante de “Le mani” (sinceramente cantata maluccio), è la volta di “Canzone della torre più alta” che, con un incipit altamente rockettaro, si apre ben presto ad una forma canzone più vicina agli standard italici. “Punto di fuga” conclude il suo percorso in “Ultima cena”, una coinvolgente reprise dell’incipit, ancora nello stile severo di Emidio Clementi: «Ho capito che non ti eri mai alzata / da quella stupida sedia».

Coadiuvati in studio da Samboela (precedentemente a lavoro sul capolavoro Brondiano “Canzoni da spiaggia deturpata”), gli Staré Město hanno confezionato un disco molto bello, ed è come se intendessero ricevere personalmente il testimone da Federico Fiumani, qualora questo decidesse di farla finita con la musica: medesima passione per la bassa fedeltà, identica inclinazione al crossover tra punk e ballata rock.

SHIVER

L’emozione e il vortice che diventano musica. Questo slogan sembra il più adatto a descrivere le canzoni dei Starè Mesto, formazione sull’asse Bologna/ Ferrara che con Punto di Fuga escono allo scoperto sulla grande massa degli ascolti, un disco che va a presenziare quella languida poetica carica di lirismo, intimità e descrizione, il tutto poi mischiato in un malinconico ed elettrico spasimo, tra i Marlene del post-rock “Thalia”, “Racconto di primavera” con l’ospitata di Igor Tosi (Devocka)  e ghiaccioli waveing di stampo Diaframma, tanto che la band ne omaggia la caratura di Fiumani rileggendone una straordinaria “Cielo d’Africa”,  ballata gravida d’ansia e tormento. Tracce a loro modo incandescenti e decisamente uniche nelle loro avventure amplificate, parole e pensieri che escono allo scoperto con una contemporaneità nuda, contenendo intatto quel materiale di riporto come un’onda grigia a riempire i vuoti d’anima o svuotarli del tutto, un andirivieni di afflati e ossessioni che aprono il plesso solare come un delicato piede di porco e che – dallo stereo ai nostri orecchi – incantano come fortune sotterranee. Enrico Bongiovanni, Tom “Delay”Lampronti, Giovanni “Fuzzbinder” Sassu e Ruggero Calabria, creano una sinfonia di cortocircuiti dentro una dimensione eccelsa, un suono che arriva come nuvole partorienti di scariche e poesia, una tracklist fangosa quanto vissuta e da vivere appieno, da vivere interamente nella sua introspettiva spiritualità maudit. È – senza ombra di dubbio – uno degli esordi  più intriganti che arrivano diabolicamente a “disturbare” le acque ferme dell’underground, fa sparire il cronologico dell’oggi e le temporalità fittizie per dare luogo e spazio a presenze d’autenticità, lo scandaglio nelle viscere dell’io “Menodizero”, il Rimbaud resuscitato nella poesia “Canzone della torre più alta” o il fluido esistenzialista e magmatico che “Ultima cena” sputa in faccia a tutti come lascito e sacrilegio di un peccato impeccabile, un disco che spazia quasi in una coreografia eterna, in cui l’esistenza, la morte, il suono ed il silenzio sono solo illusioni. Grande!

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bandiera_italia   INDIEPERCUI

Adrenalina pura intrecciata a liriche cantautorali che si lasciano trasportare dal vento della tempesta che tutto prende, tutto si porta via, rabbia lisergica in foglie che si preoccupa di lasciare una traccia, un gesto, un segno di riconoscenza verso ciò che è stato prendendo spunto dalla scuola italiana anni ’90, in primis Marlene Kuntz per intrecciare CSI a Federico Fiumani meditativo come non mai, per non lasciare scampo al reale e ricucendo pezzi di immaginazione sospesa. Gli Staré Mesto sono tutto questo, poesia catartica in galoppate elettriche che fanno scorrere nelle vene echi di pensose poesie lasciate in balia di un mare in burrasca che chiede di essere inglobato in una luna a ponente che tocca il cielo per sempre. Illusione, frustrazione, rabbia quasi agonia nera che porta ad una chiusura del proprio essere e al silenzioso vivere quotidiano nell’apatia più totale. I quattro conoscono la formula per uscire dal tunnel, sospeso per sempre, in un cammino ineluttabile che lungo le 8 tracce si consolida come non mai partendo con le grida sincopate di “Thalia” per arrivare in breve tempo a “insaguinare i prati” in “Racconto di Primavera”, uno spettacolo da poter osservare davanti ad uno schermo bianco dove il tutto è il vuoto di se medesimo. Poi le canzoni si trascinano in un vortice di speranza, bellissima “Cielo d’Africa” dei Diaframma, reinterpretata per l’occasione. Solidi, compatti reali; una purezza difficile da scorgere, difficile da trovare intorno a Noi: questi Staré Mesto attingono al passato per donare parole intrecciate in continuo divenire, in grado di trovare un punto di fuga, un punto da dove poter ripartire.

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bandiera_italia   LA CADUTA

Della prima traccia, Thalia, ci piace molto la struttura ritmica, con un bel passaggio dalle strofe, violente e rumorose, fino al ritornello molto melodico (tecnica già usata con successo dai Sonic Youth). Molto interessante anche il testo, che ripete “saremo sempre così/io e te”, per poi cantare nelle strofe delle ”verità che è un balsamo per le nostre gole secche e chiude con “abbiamo finalmente deciso di dirci tutto il non-detto”; così finisce la canzone ed il “per sempre” del ritornello ha una fine drastica, che coincide con la chiusura repentina del brano. La seconda traccia è Racconto Di Primavera, che vanta la partecipazione di Igor Tosi, cantante dei Devocka. Brano che si fa ascoltare con piacere: ottimi i cambi di ritmo, che sono molto più leggeri rispetto alla prima traccia. Segue Menodizero e qui si palesa la volontà di parlare di ciò che non viene detto, dell’inespresso, ed infatti la prime parole che sentiamo cantare sono “ci sono frasi che hanno un senso fino a quando non sono pronunciate”. La canzone è molto calma, quasi rilassante, ma non si fa in tempo a chiudere gli occhi che inizia Riparo, la quarta traccia, molto più energica e frenetica. Le Mani, terz’ultima traccia, lascia la carica che abbiamo sentito fino a questo punto per portarci in un vortice di calma quasi disperata, che ci conduce e ci porta per mano a La Canzone Della Torre Più Alta, una rilettura della celebre poesia di Rimbaud. Ultima Cena chiude l’album: apre la batteria, poi partono le chitarre e quando inizia il cantato riscontriamo il modo di fare tipico dei Massimo Volume, sia per affinità testuali, sia per l’interpretazione vocale del pezzo. Ma anche qui, le conoscenze pregresse dei Staré Město ritornano ma vengono rielaborate per produrre un suono ed una canzone veramente pregevole. Dopo trentaquattro minuti tutto finisce e si rimane piacevolmente colpiti dall’impatto che si ha con il cd. Gli amanti del tradizionale rock italiano anni ‘90 rimarranno veramente colpiti e dopo aver assorbito ciò che è vibrato nelle loro orecchie, avranno voglia di premere di nuovo il tasto play, per farsi trasportare ancora una volta dalla forza di un gruppo che conosce la musica e sa far musica.

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bandiera_italia    AUDIOFOLLIA

Gli Staré Město sono una rock band molto interessante,nata nel 2011;”Punto di fuga” è uscito inizialmente come autoproduzione l’anno scorso,per poi approdare oggi all’attenta label “I dischi del Minollo”. La musica del gruppo (formato da Enrico Bongiovanni-chitarra, voce e autore dei testi, Tom “Delay” Lampronti-chitarra e cori, Giovanni “Fuzzbinder” Sassu-basso e cori, e Ruggero Calabria alla batteria) è ricca di dinamiche chiaroscure,di poesia scintillante e caleidoscopiche armonie,in cui si mescolano varie influenze (il nome stesso del gruppo non è stato scelto a caso,dato che evoca un quartiere antico di Praga,dove convivevano vari popoli). “Thalia” è un rock robusto ed apre il disco (dotato,però di un ritornello irresistibilmente melodico);le liriche sono introspettive (“pensarti nelle mani di chi ti fa a brandelli/e che in fondo vi meritate l’un l’altra/la tentazione di lasciarti a chi ti sbrana/perchè in fondo vi somigliate l’un l’altra”) e personali,e si sposano bene alla corposità del sound. L’introspezione è al centro anche su “Racconto di primavera “(“La primavera insanguina i prati/tra cui cammino senza pensare/a quello che manca/a ciò che è di troppo”),adornata da bellissimi arpeggi ed intrecci chitarristici;anche la melodia è ottima,limpida ed umbratile al tempo stesso,e riflette le sensazioni caleidoscopiche evocate dalla musica sullo sfondo. “Meno di zero” continua su sentieri ombrosi e riflessivi;la band emoziona sempre in maniera totale,e la poesia-sempre meditativa- non è solo nel testo (“ci sono specchi in cui vedere/quello che non siamo stati/nè saremo mai/e altri specchi ancora/da conficcare nella carne/per assomigliarsi un pò”),ma anche nella musica stessa,che alterna momenti delicati ad altri più potenti,eppure mai sopra le righe:ed è meraviglioso il connubio “totale” tra parole e sound che riesce a sfornare il gruppo. “Riparo” è un brano più diretto e veloce,ma ugualmente bello e riuscito;la natura personale delle parole è un’eccellente spaccato di vita vissuta (“voglio soltanto uscire da qui/in fretta e senza incidenti/inosservato,attraversare la folla/evitando gli occhi di un ex amante”),ed emoziona proprio perchè “reale”…la band è in grande forma,con la poderosa sezione ritmica e le chitarre sempre brillanti ed in primo piano. “Cielo D’africa” è una cover dei Diaframma,riletta in maniera totalmente personale e convincente;continua il gioco dei chiaroscuri caro al gruppo,con un bell’assolo di chitarra,molto incisivo e struggente. “Le mani” è una ballata più pacata,ma non meno riflessiva (“le mani anticipano ogni caduta”è una delle più belle frasi che io abbia mai ascoltato in un disco);e la melodia commuove ancora,continuando a scavare dentro il cuore con innata sensibilità (le chitarre riescono sempre a disegnare paesaggi estremamente struggenti,così come il cantato). “Canzone della terra più alta” ha un’atmosfera magica e sottilmente psichedelica,seppur memore di un certo feeling darkeggiante;il testo è altamente evocativo e presenta più chiavi di lettura (“da qui io non rischio niente/non mi aspetto niente/ma se verrò,avrò le vene pronte/la mia sete è intatta”). Il finale del disco è affidato a “Ultima cena”,una ballata scurissima e tagliente (dalla lunga coda strumentale ed avvolgente che mi ricorda i Marlene più psichedelici),che narra in maniera non convenzionale la fine di una relazione. Ricapitolando,penso che questo “Punto di fuga” sia un ottimo disco:la band stessa è eccellente,ed ha una qualità di scrittura davvero notevole,che la eleva al di sopra degli standard della scena underground italiana;come dicevo poco fa,le loro canzoni sono ricche di poesia lirico-sonora e suonate con grinta,passione e determinazione. Dunque,un ineccepibile eccellente esordio che sono sicuro lascerà un solco evidente:supporto totale,quindi,agli Staré Město

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bandiera_italia   IL GERONE

Atmosfere psichedeliche, testo un po' criptico e non banale, chitarre incalzanti... Ecco ciò che ruota attorno a "Racconto di Primavera", il singolo d'esordio degli Staré Město! Non si può certo definire un sound commerciale, il loro, ma la classe dei musicisti, la cura negli arrangiamenti, fanno di questa traccia un prodotto di qualità notevolissima. Gli amanti della musica tra il rock e lo sperimentale, senza dubbio, apprezzeranno questa produzione ed anche chi non è appassionato nello specifico, può notare come il sound delle chitarre che si rincorrono, dia energia al complesso del pezzo. Le tinte un po' malinconiche non tolgono groove e potenza all'insieme ed un ascolto in cuffia garantisce un effetto assicurato a chi ama osservare ed apprezzare quello che possiamo definire un mixaggio ed un arrangiamento di grandissimo gusto.

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L’introduzione acquatica, aliena di Derailed Dreams ci prepara ad un’immersione in un mondo niente affatto sconosciuto ma dal quale mancavamo da un bel pezzo.

Poco tempo fa, parlando de Gli Altri, band post-hardcore e quindi lontanissima dai King Suffy Generator, mi meravigliavo positivamente di come una band nostrana fosse stata in grado di portare una forte componente post-rock all’interno della loro musica in questi nostri giorni così lontani dal bel post-rock perchè – intendiamoci – di gruppi che reiterano le dinamiche delle scuole di Louisville e Chicago ve ne son fin troppe, lì arrabbiate e pronte a triturarceli con le loro geometriche intemperanze ‘emo’ e violenza math fine a sè stessa.

Quindi il post-rock non riesce ad invecchiare (e sedimentare nelle coscienze musicali) perchè ancora non vuole essere mollato dagli orfani dell’hardcore (quello vero che non hanno mai conosciuto) e allora si accaniscono sul suo corpo morto squassandone la carcassa come avvoltoi e rimestando e beccando lo svuotano di senso e significato.

E poi arrivano delle persone per bene a ricordarci che esisteva un altro modello di post-rock oltre ai soliti due comunemente  proposti, quello ben più difficile, fantasioso e ricco di sfumature dei Tortoise. Ecco dove guardano i King Suffy Generator ed ecco perchè nelle loro composizioni si affacciano elementi progressive, space e persino latin rock.

La stessa Derailed Dreams nel suo algido rigore ritmico si infiamma di aperture che ricordano il primo Santana, quello vero, non il pupazzo con cui l’hanno sostituito poi.
Ritornano le sospensioni dei Tortoise in Short Term Vision esono proprio quelli di TNT, quelli più vicini ai deliqui dei cugini analog-pop The Sea and Cake.

E non bisogna meravigliarsi a parlare di prog ed affini perchè gli stessi Tortoise erano affascinati dal motorik krauto e da certe sperimentazioni settantine. Ecco perchè il minuto e poco più di Rough Souls sembra una traccia perduta dei Popol Vuh o degli Amon Düül.

Relieve The Burden dimostra come la band sappia anche incalzarci ma persino nella foga neo-prog riesce a non perdere mai il controllo ricordandoci – come anche la successiva We Used To Talk About Emancipation un’altra delle più grandi band post-rock – meno imitate – di sempre, gli Shipping News.

Un disco così ed una band di connazionali così, di questi tempi bisogna tenerla  d’occhio. Non mi stupirebbe ritrovarli nelle charts indipendenti tra i migliori dischi italiani dell’anno.

http://www.kingsuffygenerator.com
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